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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

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Girodivite - n° 52 / aprile 1999 - Pacifismo, guerra Jugoslavia

Ka, semu nguaiati

di s.f.

A uerra. Quando si sente dire in giro questa frase, "a uerra", si sente l'intonazione di una voce: quella di un anziano, un vecchio, uno che "a uerra" l'ha vissuta, ne ha avuto esperienza. Il tono della voce è cavernoso, evocativo, rimanda a qualcosa di più grande di tutti noi e perso (o quasi) nella notte spaventosa dei tempi. "Kuannu c'era a uerra...", si dice. Allora accadevano le cose più spaventose e indicibili della povertà e della miseria umana. La gente impaurita dai bombardamenti, i rifugi contro gli aerei, le case rase al suolo. E la fame, tanta. Il mercato nero. I soldati giovani che partivano. E di cui si perdevano le tracce. Per chi partiva c'erano le sofferenze "dà uerra" appunto. Il vedere la morte con i propri occhi. E la paura, continua e immensa. Gli ordini dei superiori. La sensazione di stare andando avanti con fucili e scarpe inadatti, incapaci di proteggerti. Il freddo. La pioggia. Interminabili, le camminate - a qualsiasi "corpo" si appartenesse. "A uerra", si dice. E non si dice altro. Basta la parola. Perché tutte le sofferenze immaginabili non rendono cosa è "a uerra". Per quanto ci si sforzi a rinvenire i vocaboli nei dizionari.

L'Italia è in guerra. Ancora una volta, dopo 50 anni. Due o tre generazioni sono state sufficienti per farci dimenticare il rifiuto della guerra che era stato all'indomani del 1945. A portarci in guerra, oculati e intelligentissimi premier. La migliore classe dirigente che questo Paese abbia mai avuto. Ciò che non sono stati capaci di fare Cirino Pomicino, De Michelis, Pietro Longo, Valerio Zanone e tanti altri (giustamente) dimenticati, sono stati capaci di fare D'Alema, Veltroni, Prodi, Dini e consimili. A portarci in guerra, anche, i nostri trattati e protocolli più o meno "segreti" che hanno fatto dell'Italia, negli ultimi 50 anni, un Paese a democrazia bloccata e vigilata. Un Paese a sovranità limitata. Sotto la bandiera della NATO. Gli Stati Uniti non si sono mai fidati di un Paese che nel 1914 ha tradito le alleanze con i tedeschi per mettersi dalla parte di Francia e di Inghilterra; e nel 1943 è passata bellamente da una parte all'altra della barricata in modo che, chiunque avesse vinto, avrebbe avuto un Governo fatto di "alleati". Gli italiani si credono furbi, il mondo degli Imperi lo sa e ne diffida. Semu inguaiati dalla nostra stessa storia e dalle nostre italiche virtù. Gli Stati Uniti ora ci presentano il conto. Noi, sotto "l'ombrello della Nato" abbiamo fatto alcuni dei nostri migliori comodi. Venduto le mine antiuomo a tutti i Paesi della terra. In Somalia, Etiopia e Eritra abbiamo combinato più casini di chiunque altro: si va dagli "aiuti umanitari" fatti di spazzatura e arricchimento speculativo fino agli ultimissimi stupri che i nostri baldi soldatini "brava gente" hanno commesso sulle donne somale, le torture documentate. Di come abbiamo ridotto l'Albania meglio tacere. Dalle speculazioni finanziarie che hanno ridotto alla fame la popolazione alle fabbriche degli speculatori "imprenditori" italiani che hanno pensato bene di sfruttare la manodopera a basso costo e l'assenza di leggi su inquinamento e difesa dell'ambiente. Gli italiani "brava gente", capaci di mobilitarsi grondando solidarietà da tutti i poli, hanno ora quel che meritano. Torneranno ad assaporare cosa vuol dire crepare in guerra. E cosa significa un regime di guerra e fascista in questo Paese. Perché "a uerra" è anche e soprattutto questo: non si mandano i soldati a crepare sul fronte senza essersi assicurati che nessuno si ribelli all'interno. I sindacati sono avvertiti. Quanto ai pacifisti, a quelli ci pensa la Bonino: ha promesso loro "un culo così". In questi giorni "la gente" ha le posizioni più variegate riguardo alla guerra. Chi nega, chi (la maggior parte) si limita a ripetere le aprole di Emilio Fede. Una nazione fatta di "emiliofede-dipendenti" e che costituiscono la maggioranza reale del Paese. Con inquetudine, i migliori, cominciano a vedere questa guerra aumentare di intensità. Giorno dopo giorno. Si reagisce all'inquietudine cercando di darsi ragione: Milosevic è come Hitler, le "fosse comuni" del Kosovo. Tutte le baggianate e le invenzioni della propaganda bellica della Nato. Il bisogno è fortissimo: di voler credere. Di continuare a credere di essere i buoni, e che i cattivi sono altrove. Non siamo noi. Chi parla contro o chi pone dei dubbi è senz'altro un "amico di Milosevic". D'altra parte ciò che succede in Jugoslavia "da noi" non potrebbe mai accadere. Noi siamo un Paese civile. Non abbiamo mai avuto il fascismo né i lager a San Saba né le Fosse Ardeatine. Nessuno di noi ha stuprato in Somalia. O violentato in Albania (l'altra verità sulle "missioni umanitarie" degli italiani...). I dubbi intanto si fanno sentire, trapelano. Alcuni pochissimi giornalisti e una o due testate. Ciò rende conto di cosa sia oggi "la sinistra" di un tempo, e cosa ha seminato questa sinistra quando ha sfiorato la maggioranza (negli anni Settanta, dico). Santoro improvvisamente ha rispolverato il suo tesserino di giornalista ed è andato a vedere "sul campo" così come dovrebbe fare un qualsiasi giornalista serio. Documenta ciò che vede sulla sua trasmissione. "Il Manifesto" continua la sua solitaria battaglia "dalla parte del torto", mobilitando 100 mila persone contro la guerra a Roma. Sono dubbi e notizie che filtrano, perché poi il "fronte" militarista non è ancora così compatto. Le crepe rivelano che c'è qualcosa che non va. Che è possibile allargare quelle crepe, diffondere le notizie, dialogare.

Semu inguaiati. Dai protocolli e dalle alleanze. Ma abbiamo anche una cosa, chiamata orgoglio. L'orgoglio dei poveri e della gente comune. Di chi davanti all'orrore verso cui veniamo spinti, può ancora dire no, io non ci sto, io a mio figlio in guerra non ce lo mando. C'è chi dice no - è il titolo di una canzone e il titolo di un documento contro la guerra che abbiamo diffuso subito dopo i primi bombardamenti della Nato (e dell'Italia). Siamo in guerra: io no. Ficnhé c'è la possibilità di poter dire e far sapere una cosa del genere, rimane la speranza che siamo (ancora) in democrazia. La speranza che è ancora possibile fermarli.


Released online: September, 1999


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******July, 2000
 
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