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Girodivite
- n° 50 / febbraio 1999 - Economia, Politica
IMPRESE GIGANTI STATI NANI
di Ignacio Ramondet - Questo testo è stato pubblicato sul
sito di Torre di Babele, gruppo calabrese che aderisce come Girodivite
all'Osservatorio Meridionale.
Non passa una settimana senza che i media annuncino
un nuovo matrimonio tra grandi imprese, un colossale ravvicinamento,
una megafusione per far nascere una mega-impresa. Ricordiamo che la
casa automobilistica Chrysler è stata acquistata dalla Daimler-Benz
(per una somma di 43 miliardi di dollari) (1), la Banca Citicorp dalla
Travelers (82,9 miliardi), la compagnia telefonica Ameritech dalla Sbc
Communications (60 miliardi), la farmaceutica Ciba dalla Sandoz (63,3
miliardi) per costituire la Novartis, la MCI Communications dalla World
Com (30 miliardi), la Bank of Tokyo dalla Mitsubishi Bank (33,8 miliardi),
la Société de banque suisse dall'Union des banques suisses (24,3 miliardi);
e infine, la recente decisione di fondere i due giganti storici della
siderurgia tedesca, Tyssen e Krupp, il cui fatturato, secondo i dirigenti,
ammonterà a 63 miliardi di dollari ...
Nel 1997, tra fusioni e acquisizioni in tutto il mondo
si è raggiunta la cifra di 1600 miliardi di dollari! I settori più interessati
da questa corsa al gigantismo sono le banche, le industrie farmaceutiche,
i media, le telecomunicazioni, l'agroalimentare e l'industria automobilistica.
Perché quest'effervescenza? Nel quadro della mondializzazione,
i grandi gruppi della Triade (Nordamerica, Unione europea e Giappone),
che aspirano ad una presenza planetaria, approfittano della deregulation
dell'economia, e cercano di divenire attori importanti in ogni grande
paese, detenendovi quote di mercato significative. D'altra parte, il
calo dei tassi di interesse (che provoca un trasferimento delle obbligazioni
verso le azioni), le masse di capitali fuggite dalle borse asiatiche,
la colossale capacità finanziaria dei principali fondi pensione e una
maggior redditività delle imprese (in Europa e negli Stati uniti) hanno
un effetto doping sulle borse occidentali e provocano l'ebbrezza delle
fusioni.
Nei riguardi di queste ultime, i tabù tendono a scomparire.
In passato, settori quali l'industria automobilistica, la siderurgia
o le telecomunicazioni erano considerati strategici dalla maggior parte
dei governi. Ma in Gran Bretagna questo non è più vero da una ventina
d'anni, e le cose sono cambiate anche negli Stati uniti, da quando l'americana
Chrysler è stata acquistata dalla tedesca Daimler-Benz.
"Ormai i padroni sono completamente disinibiti,
dichiara un esperto del Boston Consulting Group. I paletti del
capitalismo tradizionale sono saltati, i patti di non aggressione reciproca
non valgono più. Ormai non è più proibito prendere a spallate la porta
di un gruppo, anche quando i suoi dirigenti rifiutano l'idea di un ravvicinamento
(2)". Se ne è avuto un esempio eloquente nel marzo scorso in
Francia, con la fusione-assorbimento della Havas da parte della Compagnie
générale des eaux di Jean Marie Messier, da cui è nato il gruppo Vivendi.
Il fatto è che le fusioni presentano numerosi
vantaggi per i predatori: con gli acquisti si riducono gli effetti della
concorrenza, dato che per lo più queste operazioni ravvicinano imprese
concorrenti, che aspirano a dominare il rispettivo settore in forma
praticamente monopolistica (3); e si ricuperano ritardi in materia di
ricerca-sviluppo, assorbendo le imprese in possesso di un reale vantaggio
tecnologico; infine, con il pretesto di ridurre i costi si approfitta
dell'occasione per procedere a licenziamenti massicci, (ad esempio,
fin dal primo anno la fusione delle industrie farmaceutiche britanniche
Glaxo e Wellcome si è tradotta nella soppressione di 7.500 posti di
lavoro, pari al 10% del personale).
Alcune imprese hanno raggiunto dimensioni titaniche.
Il loro fatturato è talora superiore al prodotto interno lordo (Pil)
di numerosi paesi sviluppati: quello della General Motors supera il
Pil della Danimarca; lo stesso vale per la Exxon al confronto con la
Norvegia o per la Toyota rispetto al Portogallo (4). La disponibilità
finanziaria di queste imprese è spesso più elevata dei proventi degli
stati, compresi i più sviluppati; e soprattutto superiore alle riserve
di cambio detenute dalla banche centrali della maggior parte dei grandi
stati (5).
Come in un sistema di vasi comunicanti, mentre con
le fusioni le imprese si ingigantiscono, le privatizzazioni trasformano
gli stati in nani. Da quando Margaret Thatcher lanciò le prime privatizzazioni,
all'inizio degli anni 80, tutto (o quasi) è in vendita. La maggior parte
dei governi, sia di destra che di sinistra, dal Nord al Sud, abbattono
la scure sulla massa dello stato.
Tra il 1990 e il 1997, su scala mondiale, gli stati
si sono spogliati, a vantaggio delle imprese private, di una parte dei
loro patrimonio valutata a 513 miliardi di dollari (215 miliardi per
la sola Unione europea). Gli investitori apprezzano particolarmente
le imprese privatizzate, che hanno già beneficiato di una ristrutturazione
finanziata dallo stato, e i cui debiti sono stati ripianati. In particolare,
le aziende preposta ai settori di prima necessità (elettricità, gas,
acqua, trasporti, telecomunicazioni, sanità) sono molto attraenti, dato
che assicurano redditi elevati e regolari, privi di rischi; e gli investimenti
preliminari, che possono richiedere decenni, sono stati già fatti dallo
stato.
Si assiste così all'insolito spettacolo del potere
crescente delle imprese planetarie, di fronte al quale i contropoteri
tradizionali (stati, partiti, sindacati) appaiono sempre più inetti.
La mondializzazione, fenomeno principale della nostra epoca, non è pilotata
dagli stati; e questi ultimi, a fronte delle imprese giganti, perdono
sempre più le loro prerogative. I cittadini possono tollerare questo
colpo di stato planetario di nuovo tipo?
Note:
(1) 1 dollaro = circa 1760 lire
(2) Libération, 15 ottobre
1997.
(3) Se il governo degli Stati uniti ha denunciato
la Microsoft di Bill Gates, il 18 maggio scorso, per violazione delle
leggi antitrust è stato per non essere accusato di favorire la ricostituzione
di monopoli "naturali".
(4) Francois Chesnais, La mondialisation
du capital, Syros, Parigi, 1997, p. 251.
(5) Ibid, p. 253.
Released online: September, 1999
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2000
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