Dalla Mafia "pauliciana" alla nuova utopia della razza. Ernst Jünger e la "missione" della Sicilia

di Davide F. Valenti

"Per la rabbia del borghese bruceremo ogni paese, ed in fiamme andrà la terra: Dio, proteggi questa guerra!" (Aleksandr Blok, Dveàdcat', 3, 1918).

La recente scomparsa di Ernst Jünger restituisce vivida attualità ad una questione di cui il filosofo tedesco dovette occuparsi solo incidentalmente, ma che n'è uscita severamente ridimensionata dal suo chiaroveggente contributo a margine: quella circa la "natura" di ciò che si ostina, anche in ambienti investiti di "ufficialità", a denominare sbrigativamente "mafia". Ma andiamo con ordine. Facendosi impunemente beffa di una linea di pensiero (a cui lo stesso Jünger ha preso parte), la cui unica colpa è quella di non essersi soffermata alla superficie del fenomeno "delinquenziale", la triste vulgata di cui oggi alcuni "soloni" lautamente stipendiati si fanno campioni ha ottenuto una sconcia vittoria presso l'opinione pubblica, da cui ha tratto giovamento il "sistema Italia". I due atteggiamenti in conflitto - ché in tali termini si pone la questione - si possono così sinteticamente riassumere: il primo, quello che ha sottoposto il fenomeno "delinquenziale" ad un'accuratissima disamina storico-filosofica, per un verso ha contribuito a rinvenire nelle distorsioni del processo unitario italiano le vere responsabilità storiche del "ribellismo" meridionale (responsabilità a cui non furono mai estranei gruppi affaristici e lobbys politico-massoniche settentrionali), la sua completa eziologia, per un altro verso ha fatto luce - ed è ciò che più ci interessa in questa sede - sui meccanismi antropologici e "culturali" - in senso forte - surrettiziamente operanti nella cosiddetta "devianza criminale del Mezzogiorno": che valgono da soli a tramutare quello che gli insipienti vorrebbero ridurre ad un puro fenomeno di ordine pubblico (la criminalità organizzata, puta caso) in un atteggiamento - ideale appannaggio del Mezzogiorno - di radicale sfiducia, di intima ripugnanza nei confronti del moderno "stato di diritto" e della sua stucchevole pantomima liberaldemocratica. Qui comincia il contributo Jüngeriano alla più generale questione del "ribellismo: "Il terreno [in Sicilia] è troppo vigoroso perché vi attecchiscano forme spirituali [inutile soggiungere che qui il termine occorre in accezione "neutra"] come quella dello Stato; sulla sua superficie esse scivolano via (…) il più delle volte se ne distaccano. Questo spiega perché i legami naturali, come la famiglia, risaltino tanto più significativamente" (E. Jünger, Viaggi in Sicilia, Palermo, 1993).
Quale che sia l'etimo più ragionevolmente condivisibile del termine "mafia" - lasciamo la questione prudenzialmente irrisolta -, la sua natura di fenomeno "tradizionale" (nel senso ascrittovi dal Tonnies di Gemeinschaft und Gesellschaft, dallo Spann del Wahre Statt, nonché da gran parte dell'organicismo romantico) ed antimoderno non può essere posta in dubbio se non a costo di cadere rovinosamente nel ridicolo: ma i "soloni" dell'Antimafia (se proprio si vuole dar nome all'insipienza, le si dia il più sconcio) non temono il ridicolo.
Cominciamo col dire che la Mafia, checché ne scombiccherino i giornali di regime, adusi a spacciare il pattume "confindustriale" come fosse oro colato, non è mai stata una "associazione a delinquere": almeno finché la sua "purezza" arcaica e "pauliciana" non è stata contaminata dal veleno settentrionale (scil.: savojardo) dello stato borghese burocratizzato, della sua "aritmetica sociale" tardoilluministica e della "tecnica del benessere" che vi funge da laido sfondo. Era ed è sempre stata, in questa accezione, l'unica forma d'imperium congeniale a comunità solidarizzate da un diritto consuetudinario, coese dalla mutua intelligibilità delle concrezioni organiche, sopravvissuto anche in ragione dell'estraneità del Mezzogiorno borbonico alla sciagurata china laico-materialistica d'un occidente secolarizzato. La Mafia compensava la precarietà etica, la pochezza ontologica dello stato di diritto (il suo "vizio" di forma e di sostanza):
Chi si azzardi ad osservare che tale disegno corrisponde sommariamente a quello d'una società "arretrata", oltre ad essere digiuno di filosofia della storia, confonderebbe massonicamente (scil.: sionisticamente) il progresso civile con la sterile emancipazione dell'io, con l'atomismo contrattualistico, in ultima istanza con la disponibilità astratta di beni di consumo, unico denominatore comune rimasto in un mondo disanimato (Weber, Koyré, Sombart) a risarcire la perduta "comunità di fede" (Franz von Baader). "Sono le due pietre di paragone, le macine che nessuno degli esseri viventi può eludere: il dubbio e il dolore - i due grandi strumenti della riduzione nichilistica. E' necessario esservi passati attraverso (…). In questo senso, vi sono paesi della terra incomparabilmente più progrediti di altri, e forse sono proprio i paesi che la gente ritiene più arretrati. E' una delle tante illusioni ottiche" (E. Jünger, Trattato del Ribelle, Milano, 1990).
Per altro verso, patetico abbaglio (ma più spesso cinica falsificazione della realtà) è quello in cui incorrono coloro che si ostinano a liquidare la "devianza" (e la coerente spiritualità che la sostiene) come fosse delinquenza comune, criminalità spicciola, puramente accaparratoria e di corto respiro, priva di scopi che non siano il conseguimento d'illeciti guadagni (che, ad esser sinceri, merita essa stessa più considerazione che non l' "onestà farisaica" di chi si erge a campione d'una legalità ipocrita): confondendo così l'accessorio con l'essenziale, la Mafia tradizionale e "pauliciana" con la delinquenza comune. In linea di massima, lo scandalo a cui si assiste sta ben più a monte: nel tendenzioso approccio "sociologico" alla questione criminale, che ne fa una questione di arretratezza civile senza mezzi termini, quasi che il "quietismo" e la grossolana "mediocrità" decerebrata indotte da un malinteso concetto del "benessere" oltre la "linea gotica" siano un valore (tagliato su misura per stupidi "bottegai", d'accordo, ma pur sempre un valore!), mentre l'irrequietezza (individualistica, s'è detto a sproposito) del sottoproletariato meridionale sia una congenita predisposizione a delinquere, e quindi - un disvalore. Perché poi sia un disvalore, quei "pellagrosi" pronipoti d'Alboino non sanno dire. E non ci stupisce: qui la "razza" torna ad avere il suo peso (Jünger ci è complice in questo).
Ed ecco che - tornando ad esemplificare - le mille incarnazioni della Commissione antimafia (poste in essere, alimentate, accreditate da questa summa di filosofia dell'impostura che ha nome "pellagra") pontificano, esternano, scombiccherano tonnellate di carta che meriterebbe un miglior uso, prezzolano patetici banditi che si prestino da bravi scolaretti ad avvalorare versioni di comodo e teoremi improbabili e zoppicanti ispirati da un livore tutto giudaico-settentrionale (appannaggio di Ottolenghi e di Affaitadi), mentre la delinquenza comune quasi si compiace, disaggregata e anarcoide com'è, d'esser paragonata a quella Mafia di cui si favoleggia, quella mafia che (mai come oggi) è il più docile "instrumentum regni" che la mafia affaristica-finanziaria-massmediatica del nord abbia in mano. E i giornali tirano, e le banche gongolano, e l'impresa vola, e il nord ingrassa.
Tutta questa triste vulgata, questo letamaio d'imposture ci hanno ormai offeso i nervi: al Siciliano non tocca ormai che prenderne coscienza, e una volta che ciò sia avvenuto… tutto potrà ancora accadere. Quanto distanti da simili meschinità si colloca il "vertiginoso" brano Jüngeriano "Dai giornali, in Il cuore avventuroso, Milano, 1986) in cui una madre accoglie e "scagiona" i suoi due figli "ribelli", appena fatti cadaveri dalle forze dell'ordine (ma di quale "ordine"), con parole ispirate e toccanti! "Vi ho qui con me finalmente, miei cari ragazzi!" Parole in cui giace l'inamovibile naturalezza d'una fiumana alluvionale: " (…) traspare da quella frase una palese superiorità sul mondo delle leggi e dell'ordine statale - una specie di forza di gravità che nulla può frenare o trattenere".
Occorre solo prenderne coscienza, "far di se stessi un'isola", e poi… tutto potrà ancora accadere. Ma una cosa il Siciliano rammenti: nessun rogo delle vanità potrà mai recare offesa alla sua superiorità etnica. La Storia, l'economia politica, le leggi di Mendel ne danno lauta conferma. Sappia esserne degno! Questo e non altro dovrà essere il suo cimento nei tempi che verranno.
Nota: L'articolo di Davide Valenti "Dalla Mafia "pauliciana" alla nuova utopia della razza. Ernst Jünger e la missione della Sicilia" è stato pubblicato su "Merkur", con marginali tagli redazionali. Il testo qui presente è pubblicato integralmente.
Released: August, 1998


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