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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

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L'opera come machina

recensione al film "Teatro di guerra" di Martone - di s.f.

"Parole, oh, parole! / non c'è che soffrire / sopra altro soffrire / nella casa, sulla pietra" (Eschilo, I sette contro Tebe , III stasimo, dalla voce del Primo Semicoro)

"Teatro di guerra" di Martone. Un "mattone" di film, ma fatto molto bene e senza cadute o cedimenti interni. Solo che ti arriva comunque addosso, e tu corri il serio "rischio" di rimanerne schiacciato. Anche se poi non è un "grande" film, ma un generoso e arcigno, tetro, scettico fino alla disperazione, "corto" (pur non avendone la lunghezza). La trama è data da una compagnia di teatro che prova, nei Quartieri Spagnoli a Napoli, senza soldi, "I sette contro Tebe" che si vorrebbe rappresentare al teatro di Sarajevo come forma di solidarietà personale e collettiva a ciò che sta avvenendo nella Bosnia della guerra civile. La trama è attraversata da decine di motivi e riferimenti. La vita della Napoli reale innanzitutto, con il boss della camorra di quartiere che assicura una pace che viene interrotta quando lui viene ammazzato; i segni di riti e costumanze specifiche (la collana regalata alla figlia). La diversa vita del teatro d'avanguardia e alternativo, anche nel luogo della rappresentazione oltre che nella finalità e nella diversa preparazione, rispetto al "teatro ufficiale" dominato dai piccoli boss e dall'obiettivo della recensione sul giornale (scena finale).

Il film è strutturato molto bene, anche se è un po' ovvio il "colpo di scena" della notizia della morte dell'amico di Sarajevo e della difficoltà alla partenza con i tormenti del regista che 'si tiene tutto per sé'. Meno scontato il finale, con la non-partenza della compagnia. Una scelta di pessimismo ulteriormente confermata dalla scena finale della cena solitaria della compagnia "ufficiale": la compagnia dei marginali? dei "velleitari". E' il giudizio che il mondo dell'integrazione dà alle generose inconcludenze di chi prova "altro". Il diverso metro di giudizio, la diversità dei mezzi e dei fini pur essendo "lo stesso" lo spazio del "genere" teatro.

In ballo c'è, ma non solo, la funzione dell'arte. A che serve fare teatro? Riprodurre i testi del passato per una recitazione "in costume" o per una attualizzazione nella carne della vita di oggi? Martone non ha ricette né soluzioni, pone tutti i dubbi e tutte le contraddizioni di qualsiasi scelta fatta, senza nessuna pietà, per nessuno. L'impietosità dello sguardo di Martone come segno di una più intima e profonda pietas. Il film funziona a scatole cinesi, con un moltiplicarsi di temi e di riferimenti per ognuna delle scatole o dei livelli su cui si ferma lo sguardo. Con questa strutturazione, ogni livello riceve la dignità della propria specificità. Non ci sono livelli che sono dichiarati come "finzione" o "artefatti", "non realtà" rispetto ad altri. La realtà della vita quotidiana degli attori è una realtà specifica, non segnalata dal giudizio di artificio o "essere-fuori-dal-mondo". In questo modo, anche in questo modo, Martone evita di scadere nelle trappole dei luoghi comuni e dello svilimento di scene rispetto ad altre (come sarebbe potuto accadere trattando il tema "vita quotidiana degli attori" specie nella connessione con il luogo-comune droga). Di qui anche l'onesta e rigorosa omogeneità (interiore) delle scene che si susseguono con ottimo taglio e ritmo cinematografico. Ogni livello dice dunque specificatamente, cioè secondo la propria coerenza interna, sviluppa il proprio discorso "interiore".

Quando lo sguardo vede i vicoli di Napoli, dice alcune cose, quando guarda le prove e poi la prova generale dello spettacolo, dice altre cose. Vi è una polifonicità di significati, che rende questo film come una macchina da illuminazione, che proietta i suoi fasci di raggi laser a 360°. Vediamo i fasci di raggi luminosi, ma vediamo anche le zone d'ombra e buie tra un fascio e l'altro, e gli sprazzi di realtà che sono improvvisamente illuminati dalla macchina in movimento vorticoso. Un tempo, nella nostra storia, si usavano due termini riferiti alla costruzione dell'arte: quella di opera e di machina. L'opera della cattedrale, si diceva, per indicare la fabbriceria (Opera del Duomo); la machina teatrale si dice - senza più ricordare l'uso originario riferito, nel teatro classico, al dispositivo scenotecnico destinato a far comparire la divinità nell'azione.

Con il film di Martone siamo davanti alla costruzione di una vera e propria machina filmica e teatrale, opera dello sguardo e della stratificazione dei significati e della realtà. Un'opera in nero, in cui teatro come spazio della rappresentazione e guerra come evento della morte inferta tra gli uomini, si intrecciano non solo secondo le indicazioni del titolo del film. E' dalla tenuta di questa machina nel corso del tempo - lo svolgimento che è la pellicola ed è la trama del racconto - che deriva la bontà dell'operazione di Martone. I vari livelli a volte si intrecciano, chiasmi bipolari di una generazione cellulare, moltiplicando in questo modo i significati: la tovaglia che ha una collocazione ben precisa all'interno del "livello" prova teatrale all'interno del Teatro Stabile, e ne ha un'altra (di diverso segno, come il positivo rispetto al negativo precedente) nella "prova" della compagnia dei sarajeviani. L'uso della lingua napoletana, delle diverse lingue napoletane: la lingua napoletana colloquiale del capo-compagnia del Teatro Stabile (attenzione: mi sembra che nella loro quotidianità, sul palcoscenico, gli attori sarajeviani non usino il napoletano se non come inflessione naturale della voce - così come del resto nelle "interviste"/autoanalisi che fanno parte non della quotidianità ma del lavoro teatrale), e quella della donna del boss di quartiere ecc. La contrapposizione che se ne ricava tra polizia e camorra di quartiere: la seconda, nella figura del boss locale, che permette alla compagnia le prove e interviene quando il "suono" prodotto dalla compagnia (la parola dell'arte teatrale) urta contro il "suono" accettato nel vicolo del quartiere (la parola della realtà quotidiana) - il rumore dei motorini, le voci del quartiere popolare e che costituiscono il rumore di fondo, assordante, di questo vivere nell'immersione del tempo là dove l'artefatto del teatro è la sospensione e l'esclusione del tempo. E mentre nell'esame del teatro della scuola non vi può essere risposta alle domande dell'insegnante (la teologia cattolica), nel teatro sotterraneo e limbico la ragazza "risponde", partecipa.

Perché nel teatro l'individuo trova domande e problemi che "lo interessano", che "importano". Un problema di lingua e di significato di quella lingua, di valori. E mentre la polizia è quella che non interviene quando agiscono le armi vere che uccidono, ma solo quando ci sono quelle finte dei teatranti, "interrompendo lo spettacolo" ovvero compiendo l'atto autoritario di scioglimento rispetto alla parola teatrale che l'autorevolezza del boss locale aveva evitato venisse compiuto. E mentre il regista pone il pudore dell'arte-per-l'arte quale autodifesa dall'accusa di autoglorificazione, solidarismo buonista, ideologismo perfino. No, dice il regista, noi andiamo a Sarajevo "solo" per fare una rappresentazione. Teatro è ciò "che accade", ma proprio l'accadimento cambia il senso, significa. L'attività limbica (di preparazione rituale) degli attori sarajeviani "avviene" in una nicchia dei quartieri popolari. E' già una scelta di campo, questa. Che differenzia. Che dice l'alterità del gruppo rispetto all'altro teatro, quello "ufficiale" e "esistente" (perché finanziato e, poi, nella "storia" ovvero sulle pagine dei giornali). Far avvenire una cosa in un dato posto invece che in un altro: già questo rimanda a una etica e non più a un edonismo estetico. Fare le prove ai Quartieri Spagnoli non è solo un fattore contingente, dettato dalla penuria finanziaria del gruppo: diventa parte logica e essenziale, consustanziale, della scelta di far avvenire un atto di teatro a Sarajevo. Atto di teatro ovvero atto di significato e di pace, in una scena di guerra e di insensatezza. Ma, anche, in una scena dettata dalle leggi economiche che portano all'esclusione: perché poi i teatranti della compagnia sarajeviana sono tutti disoccupati o che fanno altro per poter vivere o che si ritrovano nella compagnia altrimenti non collocabili altrove (il caso dell'attrice professionista, che interpreterà Antigone).

Nello spazio economico dell'occidente, volontariato è l'unico spazio possibile per chi vuole comunque fare, nonostante l'esclusione e la marginazione cui per un motivo o per l'altro si è sottoposti. E fare le cose in cui si crede: altrove, nell'altrove dominate, si fa solo ciò per cui si è pagati (l'interpretazione di Iaia Forte, l'attrice puttana). Ma proprio per questo, proprio perché è l'atto sterile e residuale di chi vive nel margine, si tratta di un atto puramente velleitario, destinato allo scacco. La prevalenza dei colori forti e soprattutto scuri, del nero, non è casuale: il film di Martone è un film non solo segnato dalla guerra (reale e metaforica), dalla tragedia della guerra (e in ciò restituisce forza e significato a un modo di dire giornalistico che ha perso ogni significato nella ripetizione falsa e ipocrita delle pagine di cronaca), ma è un film in lutto. E' un film che si condensa nell'immagine delle donne (il coro delle donne napoletane) che, in fila indiana, portano il cibo lungo le scale fino in terrazza: vedremo poco dopo che si tratta del festeggiamento della compagnia sarajeviana, ma immediatamente comprenderemo che si tratta di una scena di tutt'altro segno. Equivale al cibo portato alla veglia funebre nel rito meridionale che segue il funerale. La festa festeggia la buona riuscita della prova generale, ma è anche l'ultima cena. La cena che veglia il morto - l'impossibilità della rappresentazione perché a Sarajevo ha vinto la guerra e la violenza; la morte dell'amico del regista italiano, proprio davanti al teatro (a Sarajevo); la morte di una speranza di riscatto morale proveniente dall'Occidente.

Il film dice "anche" della guerra bosniaca. Qui sembra fare una specie di resoconto di come una parte della società italiana ha vissuto questa tragedia. L'impotenza. Il chiedersi "cosa si può fare": e lo scacco che la compagnia subisce, il non riuscire a andare a Sarajevo è lo scacco della nostra cultura - democratica ed occidentale - nei confronti di ciò che è successo. Una società, la nostra, che si presenta spezzata e eterogenea: nel film di Martone si rappresentano il mondo dei giornalisti ("se non succede qualcosa di sanguinolento non possiamo darvi i pass della stampa", dicono più o meno i cronisti del giornalismo mass-mediologico, interessati solo al sangue e all'audience), quello degli affaristi del teatro (il capo-compagnia del Teatro Stabile, del tutto disinteressato alla guerra e interessato solo a ciò che gli è di immediatamente utile), quella della cultura bibliotecara assolutamente impotente e dolorosamente atterrita dallo scempio di cui gli uomini e le donne sono capaci (scena della biblioteca, consegna del "pezzo" della biblioteca di Sarajevo: anche questa una scena un po' scontata e lagrimosa, ma lo stesso in noi la commozione e la rabbia vince il giudizio sulla scena "in sé" per cui alla fine si tratta di una "scena necessaria" perché certi sentimenti, certe cose, occorre che siano ricordate, sempre: come i nomi di ogni singola persona uccisa a Auschwitz e i titoli di ogni libro bruciato nella biblioteca di Sarajevo).

Né è secondaria la notazione di quell'atto di solidarietà che scatta per un atto personale, individuale prima che collettivo - chi come noi ha conosciuto altri tempi, ricorda le campagne di solidarietà, cementate dalla consonanza ideologica, che avvenivano ad esempio per i perseguitati greci, o per i compagni cileni: niente di tutto questo è avvenuto per la Jugoslavia, il crollo del muro significando la rottura di quello spirito di mobilitazione collettiva, possibile solo a livello individuale e casuale (io conosco te che stai male ecc.). Così che tutto "succede" in maniera come dilatata e introiettata, a spizzichi. Atto di scommessa individuale - ma quanti mercenari italiani hanno combattuto in quella "scena di guerra", quante industrie hanno venduto armi, quante conventicole hanno appoggiato con atti diplomatici e silenzi le scelte folli di guerra? - e con esiti incerti. Il film dice di Sarajevo anche quando lo sguardo è su realtà altre, quando non dice o sembrerebbe che si stia parlando di altro. Il film dice di Sarajevo anche quando si vedono i vicoli di Napoli, i detriti, gli interni e gli esterni di una realtà - di cose e di persone - che sembra uscita da un bombardamento. Ed è l'immagine del sud che si vede anche nel bianco-e-nero di Ciprì a Maresco, e nei colori pastello e dalla fumettata sottolineatura di Torre (il film di questo fine secolo: "Tano da morire").

Perché la realtà è questa, finché ci sarà un solo bambino o una sola donna o uomo che è costretto a vivere nella miseria - non quella dei quartieri bene, dei residenziali o dei dormitori impiegatizi. Continuano a gridare, soffrire e sostenere gli sguardi di questi autori che utilizzano la memoria dell'immagine in movimento e del suono per continuare a dire contro il silenzio delle mille parole di coloro che vivono nel migliore dei mondi possibili. Ed è attraverso questi sguardi e queste parole (non quelle del rumore televisivo e del chiacchiericcio e della boutade di salotto) che quella realtà trova un modo per parlare, e ricordarci: ricordare a noi stessi cosa siamo e cosa vogliamo. Ancora, se proprio si volesse trovare una parola-d'ordine unificante, il film di Martone ci riporta al tema della città. Quale posizione i singoli occupano all'interno e "rispetto alla" città? Cosa è la città e cosa ci dice? Qual è la posizione del singolo rispetto a quello che la città dice?

Se ben guardiamo, sono proprio temi dei "Sette contro Tebe". Il gruppo di attori dell'instabile e del raffazzonato scelgono "I sette contro Tebe" per rivolgersi alla città-Sarajevo, ai suoi cittadini, a quella separazione e rappresentanza di città che sono gli spettatori di uno spettacolo; ma il film (Martone) sceglie "I sette contro Tebe" (e la storia di cui il suo film "narra" con tutti il fitto tessuto tramatico e polisemico) per rivolgersi alla città-Napoli e alla città-che noi siamo. E la tragedia eschilea è quella cui è stato apposto - pare, posteriormente alla prima rappresentazione del 467 (ac) - la determinante e stravolgente di senso presa di posizione di Antigone: "Non mi vergogno di essere chiamata / ribelle e infedele alla città". Perché la donna vuole seppellire Polinice mentre il nuovo governo della città decreta la sepoltura per Etèocle mentre Polinice è condannato postumo a essere disperso. Così che una tragedia incentrata sull'opposizione tra due fratelli, tra un difensore della città e un ribelle alla città, diventa opera che pone il problema: è giusto andare contro i voleri della città? è giusto far prevalere la morale privata, la pietas familiare, o il bene collettivo è sempre e comunque determinante e superiore? Fin dove arriva il bene collettivo, fin dove si ferma la responsabilità collettiva e quella privata, dei singoli e degli affetti? Un film che sarebbe interessante rivedere, un testo ("I sette contro Tebe") che dobbiamo andare a rileggere. E quando un film ti costringe a andarti a rileggere un libro, è già di per sé un buon segno.

Note: Leggiamo nella traduzione di Carlo Diano: I sette a Tebe / Eschilo ; versione di Carlo Diano. - Firenze : Sansoni, 1966. - (Universale Sansoni ; 14). - Martone utilizza per i suoi attori la traduzione di Edoardo Sanguineti.


Released: September, 1999


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******July, 2000
 
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