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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

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Perché il federalismo adulto non diventi un "bambino andato a male". Un convegno a Messina


Un convegno, un'occasione per incontrare teste pensanti e cuori impegnati. "Processo federalistico delle istituzioni meridionali e mediterranee", tenutosi a Messina il 24 aprile, organizzato dall'associazione "Vivere la città" in collaborazione con "Il diario celeste". Il luogo, la sala riunioni di Palazzo Zanca, palazzo sede del Comune di Messina. Ampia sala, bandierine e insegne dell'Europa, per parlare di qualcosa che sta accadendo in Europa e soprattutto in Italia, un "processo federalistico" che in vario modo sta attraversando le nostre teste e che avrà effetti sulla nostra vita. Tra gli scenari che si ipotizzano: l'eliminazione degli Stati nazionali a favore delle Regioni, all'interno della fortezza-Europa. Dunque, un rafforzamento delle Regioni, ma anche delle città: il potere locale che torna ad avere forza e possibilità d'azione (locale)?
Al convegno erano presenti Patrizia Baluci (Il diario celeste) e Saro Visicaro (Vivere la città), in qualità di organizzatori e "padroni di casa" vista l'assenza di assessore alla cultura e rappresentanti istituzionali messinesi. Salvo Basso, assessore alla cultura del Comune di Scordia; Pompeo Oliva, sovrintendente del Teatro Messina; Guido Agnello responsabile di Palazzo Intelligente di Palermo; Piergiorgio Giacché antropologo perugino, e Pietro M. Toesca filosofo di San Gimignano. Hanno dato la loro adesione ed erano presenti "Oralocale" bimestrale calabrese, e "GirodiVite" mensile "delle città invisibili" del calatino e del siracusano.
Il tema del convegno avrebbe potuto prestarsi a diverse possibilità. Si tratta di un tema che sempre più emerge a livello politico e geopolitico. Gli organizzatori hanno voluto, giustamente, porre una traccia all'interno del cartoncino pieghevole d'invito. Sotto il titolo "obiettivi", hanno posto una "premessa indispensabile", una "idea base", "gli obiettivi del convegno", "ambiti di discussione".
Nella premessa, l'accenno a un punto di partenza: la costituzione nel dicembre 1995 del Coordinamento degli assessori alla cultura del Calatino; esperienza di coordinamento della vita culturale delle città del calatino (una dozzina di comuni della provincia di Catania, territorialmente con caratteristiche peculiari e distintive, attorno alla città maggiore di Caltagirone - da cui il nome del territorio), su iniziativa dell'assessore alla cultura del Comune di Scordia (per paradosso, il più decentrato dei comuni del calatino, per altri versi territorialmente più congruo al territorio del lentinese). Su questa esperienza ha già scritto Salvatore Agnello su "Città di città" (n. 2, settembre 1997). La scommessa del gruppo dei giovani assessori calatini era quella di riuscire a coordinarsi, abbattendo costi per le iniziative comuni e facendole "circuitare" nell'area, innalzando la qualità dell'offerta di servizi culturali per i propri concittadini. Esperienza che ha trovato il suo massimo punto quando il Coordinamento è riuscito a "scippare" alla Provincia di Catania un finanziamento di 400 milioni; e che ha visto anche i limiti della disgregazione abbastanza repentina, avendo un po' tutti gli assessori del coordinamento dirottato la propria attenzione sulle vicende interne dei propri comuni - le difficoltà finanziarie quotidiane, il dover gestire il proprio tempo di vita e quello dedicato alla carica e al lavoro amministrativo, il dover rendere conto quotidiano alla propria "gente". Sull'idea di rete e di coordinamento tra città, continua Salvo Basso. Egli si è fatto promotore di una rivista, "Città di città"; e ha trovato nuovi stimoli nell'azione politica e filosofica di Pietro M. Toesca, gran guru del localismo e della riappropriazione degli spazi dei singoli all'interno della città, fondatore e ideatore della Rete delle piccole città storiche dell'Italia centrale, e docente di filosofia nell'Università del territorio da lui ideata. Frutto di questa collaborazione sarà tra l'altro il rilancio della rivista toscana di Toesca, "Eupolis", con una "nuova serie" in cui entreranno le esperienze e le scritture dei "siciliani".
L'idea-base del convegno: "confederare le città siciliane (nella prima fase) per rendere possibile un'azione organica indirizzata alla discussione e sperimentazione delle varie esperienze. Un discorso che parta dalla Cultura, dalla Politica culturale, dal Federalismo. Strumenti e riflessioni cioè per un nuovo municipalismo, un nuovo modello organizzativo e di sviluppo: diverso e sostenibile. Oltre la retorica". Gli obiettivi del convegno: "fare un ulteriore passo verso la definizione del progetto", nella convinzione che mentre le Regioni del nord si stanno attrezzando per sostenere la trasformazione in atto, i municipi del Sud saranno tagliati fuori dal nuovo paradiso dei ricchi. Ambiti di discussione individuati quale traccia del convegno:
  • a) ridefinizione in termini politici della Città attraverso la Cultura;
  • b) ruolo strategico degli organi istituzionali locali preposti alla Cultura;
  • c) utilizzo dei consumi e dei beni prodotti attraverso una vera e propria "industria" culturale di servizi, di elementi ambientali e di ripristino della memoria storica;
  • d) centralità dei bisogni strategici del cittadino, non più come fattori tecnici delle "politiche di bilancio";
  • e) disegno dell'Idea di Città. Di luogo cioè nato per la vita di donne, bambini, anziani e uomini liberi.
Senza togliere nulla agli interventi e agli altri intervenuti (Guido Agnello ha posto in rilievo la necessità della Cultura materiale e della promozione del made in Sicily secondo metodologie di marketing e di vendita moderni: di qui la fondazione Palazzo Intelligente a Palermo, con il progetto rivolto agli artigiani siciliani; Pompeo Oliva ha parlato delle difficoltà della cultura e in cui versano le istituzioni culturali di Messina; Alfredo Marino assessore alla cultura del Comune di Paternò ha dato il suo contributo di organizzatore e stimolatore culturale) il dibattito ha avuto le sue punte avanzate nelle due voci, di Toesca e di Giacchè. Ci è impossibile riportare quanto è stato detto dai due filosofi, possiamo solo ricordare qualche granello rimasto impigliato nella "rete" del taccuino. Possiamo tentare una riaggregazione di quei discorsi, sapendo di commettere sistematici tradimenti di contenuti e sensi. In questo caso, l'importanza del poco che siamo riusciti a ritenere è più importante delle omissioni di cui siamo colpevoli nella nostra memoria difettata.
Toesca, gran barbone bianco corporatura robusta nonostante i 72 anni d'età, ha ragionato con estrema lucidità, portando le ragioni dei diritti libertari degli individui all'interno delle comunità. L'idea è quella di "una città che va continuamente rifondata", di cui ci si deve continuamente riappropriare. Di fronte alla realtà (globalistica) della cosmopoli, la città che ingloba tutto e si estende dapertutto, l'idea di una città vicina ai singoli. Ha analizzato le differenze tra i Comuni toscani e quelli meridionali e siciliani. In Sicilia agisce, forte, da una parte un bisogno e una tradizione centralista e autoritaria; dall'altra il bisogno libertario, radicale, di nuove forme organizzative. Mentre in Toscana l'esperienza del Comune e della piccola città è ormai dato per scontato, fa parte del "paesaggio", in Sicilia è possibile restituire senso alla Città. Proprio perché essa manca. L'indefinitezza delle città meridionali li favorisce rispetto alle città toscane. La radicalità siciliana, nel rifiuto della requisizione che opera il potere concentrato, nel rifiuto dei dogmi è estremamente positivo. D'altra parte, "chi sta male si rende meglio conto, di chi sta bene, del valore della salute".
Ciò in vista della restituzione del potere diffuso. Perché l'idea non è quella della città-comunità o della città-fortezza, ma del "luogo in cui ci incontriamo quotidianamente tra di noi" ognuno con le nostre differenze e caratteristiche, con le nostre provenienze: la città è un insieme di individui, di famiglie, di gruppi diversi. Toesca ha parlato con vigore della "struttura multietnica della città". E' solo dall'incontro tra le diversità che è possibile riappropriarci delle nostre radici e acquisire una prospettiva per il futuro. Si vive in un mondo pieno di scoperte e invenzioni. Ogni nuova scoperta ci rallegra, ma nello stesso tempo ci porta a chiederci su quel che di negativo essa può comportare. Di distruzione del passato e del futuro. Delle possibilità che ci sottrae. Per questo insiste sull'idea di città educativa: città che si trasforma in scuola, ma soprattutto che "coeduca", in cui i cittadini cioè si educano insieme. La città educativa è il terreno su cui si basa la città politica.
Raccogliendo una angosciata domanda di Saro Visicaro ("Di quale città parliamo?", a fronte della realtà dell'assenza della città di Messina non solo dal convegno ma in genere dalle occasioni di incontro e di cultura), Toesca nota come la città oggi esiste di fatto come struttura. Ma questo non basta a definire una città. Città può essere il luogo separato dalla campagna, costruito; il luogo in cui si lavora; quello in cui si è nati ecc. Oppure città è il luogo in cui si ha organizzazione dello spazio e autorganizzazione sociale, in cui la comunità raggiunge la consapevolezza di sè. Ecco, la città esiste se si ha questo.
Piergiorgio Giacchè, accento umbro occhiali scuri e capelli brizzolati, è partito dai suoi studi di antropologia e di teatro (ha scritto su Carmelo Bene ecc.). A suo avviso le metafore del teatro, studiate, permettono di rivelare tantissime cose sulla realtà - politica e sociale. Giacchè, dopo il primato della Politica degli anni Settanta, è oggi sull'idea del primato della Cultura. La cultura permette la relazione tra le persone, i singoli, cosa che non è possibile per la politica; o almeno non su temi che oggi lo interessino. Si guarda con sospetto alla cultura (dei popoli, delle comunità ecc.), accusandola di guardare indietro. Ma cultura è sedimento, si struttura sempre a valle rispetto agli agenti del cambiamento. Invece di accusare di passatismo la cultura, occorre invece chiedersi a che serve il freno. Giacchè dice di essere cresciuto con la massima di "non gettare il bambino con l'acqua sporca": si è salvato dunque il bambino, lo si è isolato dall'acqua sporca: si è ottenuto un bambino dilavato che non è sopravvissuto a lungo, perché l'acqua sporca era il suo humus, era quella che dava relazione. Viviamo in un'epoca in cui, mentre prima si diceva "progredire è necessario" ora si dice "progredire è inevitabile". Vi è un meccanismo sistematico e perverso, per cui, sistematicamente, il gran mare del Soggetto viene ridotto a Oggetto, e ogni oggetto deve avere una Funzione. La politica compie sistematicamente questa riduzione ad oggetto e a oggetto funzionale ciò che proviene dal Soggetto. Così il turismo, funzione economica dell'oggetto cultura. Ma il turismo è una visione culturistica della cultura (es. i bronzi di Riace). Sono in atto meccanismi linguistici indice di questo modo di pensare riduzionista.
Si parla tanto di Europa, ma è indicativo il fatto che per l'Italia si dice "andiamo in Europa". Per gli altri paesi - la Francia, la Germania ecc. - no: essi sono già in Europa, la stanno già facendo, non hanno bisogno di "andarci". Nella nostra epoca vi è la tendenza a far diventare metro di giudizio delle cose che invece vanno giudicate: la storia, la tecnica ecc. Si dice: "dobbiamo stare nel mercato", e poi la realtà è che più che stare nel mercato siamo nel supermarket, come nella pubblicità: viviamo nel reparto banane. La nostra società ha dato una egemonia preventiva al politico. Leggendo la progettata "legge sul teatro", ci si accorge di questo: si danno confini alla cultura (ma non i mezzi), perché i mezzi sono accaparrati dalla politica (che non ha confini). La stessa idea del "riequilibrio" sul territorio del teatro è folle, fa parte di un'idea della centurializzazione del teatro che non ha consistenza. L'unica cosa che la nostra epoca ha saputo presentare, a livello "culturale" è il festival dei sondaggi, la democrazia culturale come parità di tutte le idee.
Il teatro è luogo, ed è tempo. Il teatro insegna come dare spessore al tempo, come rallentare il tempo, come perdere tempo. Nella quotidianità le nostre protesi tecnologiche sono invece fatte apposta per "guadagnare" tempo. Ma il teatro è anche luogo, ricostituzione di una piazza, un farsi vedere non più metafisico (tv) ma fisico, reale. Lo abbiamo visto con la riapertura, meritoria, del Massimo di Palermo: in quella occasione oltre agli spettatori c'era anche gente che dimostrava. Ciò non è un "incidente". Il fatto è che, oltre che luogo privilegiato per "farsi vedere", il luogo-teatro è anche il luogo in cui l'élite si riaccende: il teatro è sempre il luogo di una minoranza, in cui si promuove una minorietà. In cui la minoranza, l'élite, si separa dal resto, ma nello stesso tempo in cui questa minoranza si riscopre come soggetto, e in cui gli individui si relazionano.
Si associa il passatismo della cultura alla nostalgia. Ebbene, con il teatro è possibile procedere alla ricostruzione di una nostalgia, ma per finta. Dal barocco in poi il teatro è una separazione ma finta, in cui per finta l'attore "si separa" dallo spettatore, ma per ristabilire una relazione. Tutto il teatro moderno d'avanguardia (Artaud ecc.) si muove su questa nostalgia dell'unità. La cultura non ha mercato. Ha un teatro, un apparire. Ma è assolutamente gratuita. Oggi sta passando l'idea di un federalismo muscolare, vichingo. Si tratta di un'idea di federalismo che significa rottura, separazione. Mentre invece l'idea di federalismo "al dritto" è quella di aumentare le relazioni, anche di quelle inutili o apparentemente inutili.
Deve essere anche chiaro che quando si parla di cultura e di politica come di due cose distinte, assolute, stiamo parlando per convenzione. E' il nostro dualismo occidentale che ci fa separare cultura e politica. In realtà le due sfere agiscono come strati, si intersecano. Nella storia ci sono stati momenti di compenetrazione, e sono stati momenti concettualmente preoccupanti: lo Stato etico, l'intellettuale organico ecc. E' necessario oggi che cultura e politica siano in attrito. L'assessore alla cultura deve praticare lo stupore e la disobbedienza. Deve saper ascoltare - anche perché la dignità del singolo passa attraverso l'ascolto - ma ascoltare al rovescio. Giacchè ricorda l'esperienza personale di Niccolini: era una delle ultime "estati romane", una gran folla di giovani si era radunata lungo il Tevere, in attesa della manifestazione; a un certo punto si vede Niccolini, vestito con tunica e copricapo d'alloro, circondato da un gruppetto di amici. La folla appena lo riconosce comincia a scandire: "Imperàtor, imperàtor...". Lui con ironia e senso dello spettacolo, divertendosi e rompendo la sacralità del potere, rispondeva alla folla mostrava i pollici di volta in volta alzati o abbassati come facevano gli imperatori durante gli spettacoli gladiatori. Attraverso la pratica dello stupore e della disobbedienza è possibile ritrovare la propria identità, ma non nel museo della propria coscienza. Salvo Basso (al termine del convegno e tirando un po' le somme), sottolineerà i limiti dell'esperienza Niccolini, questo essere fermi a quel modello: "siamo ridotti a un carnevale quotidiano continuo" dice, mentre avverte la necessità di politiche culturali più solide, la necessità di politiche di coordinamento territoriale ecc.. Sul tema dell'ascolto, interviene Alfredo Marino, con la sua esperienza personale di assessore alla cultura da 4 mesi a Paternò. Per Marino cultura è qualcosa che si indossa per poter interagire con il mondo, ascoltarlo, cambiarlo, farsi cambiare. Dovere e compito di un assessore alla cultura è la promozione culturale della propria città, promuovere le culture che ci sono nella città, tentando la promozione non dell'ovvio, di ciò che è televisivamente dominante e che è oggetto della compravendita nel mercato. E' un compito che si scontra però contro le inspiegabili assenze: se uno organizza un concerto di musica di un certo livello, capita poi che l'amico che si sa musicista e interessato a quel tipo di musica non viene. La città non risponde.
Per Giacchè, anche considerando l'assenza di pubblico in occasione del convegno, più che lamentarsi per l'assenza o cercare cause esterne, l'attore (l'operatore culturale, l'organizzatore) deve innanzitutto pensare a dove ha sbagliato lui: davanti a una platea vuota, suo compito è innanzitutto indagare su se stesso. Oppure appagarsi della rarità. D'altra parte, cultura significa critica, ricerca, arte; e quanti sono in grado in un dato territorio di fare cultura d'alto livello? Vi è un aspetto della cultura che è propriamente elitario, minoritario. Il problema semmai sono le figure intermedie, i clerici della cultura - organizzatori culturali, intermediari: si tratta di figure anfibie, che cercano di fare cultura ma sono in contatto con la politica. Oggi, secondo Giacchè, occorre passare dall'essere anfibio all'essere rettili. L'ideologia dell'abbraccio con il politico era parte di una concezione e di una prospettiva che avranno avuto una funzione e una necessità, ma che oggi non servono più. Quest'essere anfibi era una idea non nuova, residuo di una salute vecchia: è stato l'attivismo e l'impegno degli anni Sessanta che hanno portato a questo essere anfibi, diventando altro da ciò che si era. Per questo oggi Giacchè dice che occorre diventare rettili, per ripristinare la funzione della ricerca, della disobbedienza che è propria della cultura. E' giusto che un assessore faccia il suo lavoro, che abbia i suoi terminali responsabili esterni, che lo consigliano e svolgano la funzione di segnalazione (del nuovo che c'è, di ciò che di sbagliato si fa ecc.). Ma ognuno deve lavorare nei propri limiti. Nell'azione amministrativa, conoscenze e competenze sono fondamentali. Oggi si assiste alla formazione di quello che viene chiamato "partito dei sindaci", su cui però occorre stare attenti: occorre distinguere i campioni (Orlando, Bianco ecc.) dalla realtà dei sindaci normali. Quello che però è interessante di ciò che è avvenuto con questi sindaci-campione, è una piccola rivoluzione: si è verificato un corretto riposizionamento demagogico di contatto con la realtà da parte di alcuni amministratori; i sindaci-campione sono demagoghi, nel senso positivo del termine: sono stati capaci di tornare a ascoltare e dialogare con la propria realtà locale.
Viviamo, in tutti gli ambiti, una crisi della presenza. Ciò riguarda anche le aree della produzione che diventano marginali, diventano "cultura". Diventando "cultura" si riesce a accettare ciò che non è biodegradabile dal mercato. Per far vivere delle cose c'è bisogno di fingere. Solo così possono sopravvivere e essere di nuovo utili domani. Compito della cultura è salvare i corpi e le relazioni, ma guai agli attori se non diventano prostitute: non avrebbero come campare. Devono diventare prostitute, ma non ci debbono credere. Debbono fingere. Tutte le riflessioni di Giacchè sul teatro, passano da una domanda postasi nel decennio scorso: perché esiste il teatro? come è possibile che esista, pur non avendo finanziamenti, strutture, ecc.? Negli anni Ottanta è stato l'afflusso di gente che voleva fare l'attore a tutti i costi - con esiti spesso disastrosi a livello personale, risultati penosi dal punto di vista teatrale ecc. - che ha creato il pubblico, che si era dissipato in quel decennio.
Toesca è di nuovo intervenuto nel pomeriggio, richiamando alcune delle cose dette dagli altri convenuti nella mattinata. Si è instaurato un "circolo dell'intelligenza" in cui ognuno poneva domande e tentava risposte. Riguardo al concetto di cultura (su cui interviene Giacchè), essa per sua costituzione è finzione, ma proprio perché fa riferimento al possibile. Essa permette di mettersi fuori da ciò in cui ci si trova, per essere meglio dentro. Ciò stimola il dialogo con gli altri che sono dentro. La cultura serve a giudicare, a poter creare un giudizio, deve fornirci gli strumenti per giudicare. Oggi invece ci si riempie solo di pre-giudizi, e luoghi comuni. La cultura deve poterci permettere di ripartire da zero, da ripartire "come se" ripartissimo da zero. Oggi la città è inesistente, e la politica è disattesa. Toesca si richiama a un detto di Hegel: "la rivoluzione è rovesciamento del rovesciamento". Oggi il tentativo di riorganizzare lo spazio (la città) ha un significato radicalmente nuovo e rivoluzionario.
Ancora, sull'invito di Giacchè affinché chi fa cultura diventi rettile (e non anfibio), Toesca rimanda il concetto di "rettile" come "rettilineo": l'immagine dell'essere vivente che si erge: "emerge". La cultura come spinta all'emergenza, uscire fuori da questa società sommersa di cui si è parte (anche senza saperlo). "Noi dobbiamo parlare per noi stessi", dice Toesca, "non ambire a parlare agli altri". Siamo impegnati in una circolarità: essere intellettuali significa accettare di essere minoranza attiva. Non c'entra nulla essere aristocratici o cose del genere. Occorre saper stare fuori. Per trasformare un dato, occorre essere fuori da quel dato. Stare fuori dalla società per poter essere in grado di trasformare quella società. E' una responsabilità più grande che non essere. Toesca pensa a una società dialogica, in cui ci si scambia i beni. Funzione di una società è "felicitarsi", donarsi reciprocamente, scambiarsi ciò che si ha o che si è riuscito a ottenere; instaurare una "economia del dono" che è la convinzione che ciò che si è dato non è perso, ma messo in circolazione, e prima o poi torna indietro.
L'introduzione di questo articolo è stata pubblicata sulla rivista calabrese oralocale, che ringraziamo per l'interscambio.
Released: April, 1998


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