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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

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Il sorriso degli occhi

di Matteo Molinari

Confesso che sono venuto a Francofonte, per così dire, leopardianamente (nel senso della Ginestra). Ero (e sono tuttora) in un periodo piuttosto difficile: ma forse non dovrei nemmeno definirlo periodo, almeno non se si intende che ogni cosa ha sobriamente "il suo tempo", perchè questo periodo sembra volersi inappropriatamente distendere e prolungare come un pipistrello sui mesi a venire: col risultato di rendere perlomeno fuoritempo e quindi ridicola la mia situazione. Ho deciso di venire all'improvviso, e non è stata una decisione di entusiasmo: piuttosto una scelta che come tante altre cercava di ricatapultarmi su qualche possibilità che mi ridesse il senso della possibilità tout court. Ma con la consapevolezza che qualsiasi cosa avrei fatta l'avrei fatta come una ginestra sul vulcano: prosciugato e arido. Okey, mi pare che la nota patetica possa bastare. Comunque, sarà che il Vesuvio tace e l'Etna lì da voi borbotta, sono trasalito, anche se solo per il tempo di una scossa. Forse è stato il fatto di essere in una scuola: luogo odiato e sacro, consacrato per anni (alle elementari) con vomiti continui, e ora, al liceo, combattuto fino all'estremo. A Francofonte ho scoperto per la prima volta l'unico spazio per il quale mi sentirei pronto a lottare: cioè una scuola che contraddice se stessa, una scuola che costantemente cerca di tenere spalancata la libertà all'individuo impedendo che le strutture di potere (che in una scuola, come in qualsiasi altro luogo di aggregazione, si formano spontaneamente) si solidifichino. E lo fa nel modo più semplice: permettendo a ognuno di fare qualcosa, dove "fare qualcosa" si contrappone all'"occupare (indebitamente) tempo" della scuola, il tempo in cui si formano le strutture di potere (intese qui al loro livello più essenziale, più intimo: come strutture di sopraffazione tra ragazzi e ragazzi). Fare cose, progetti, è umano, contro l'inumanità della struttura scolastica che fa del sapere una nube e in quindici anni non mette mai di fronte ad un solo problema serio da risolvere. La scuola, se asseconda le strutture di potere, non fa che riprodurre al suo interno la mafiosità: intesa nel senso più vero, come appartenenza e affiliazione al gruppo, come abitudine a dimenticare la problematicità della cultura. Scrivo da un posto in cui l'organizzazione della cultura ha risolto e allontanato da sè qualsiasi problema classificando ed enciclopedizzando tutto: ed è giunta al livello forse più alto e pervasivo di mafiosità, quello che Catania e la Sicilia (per fortuna) non possono sperimentare: che è la mafiosità culturale, l'appartenenza di setta in cui quella cultura che dovrebbe combattere ogni affiliazione, ogni tentativo di piegare il dialogo aperto, laico, è diventata un'arma sociale e nulla più. Così, tra i pannelli antincendio affumicati da quella "piccola mafia" che ha assorbito con il pane la mafiosità, e con lo sguardo a un'altra, più familiare mafiosità, ho sentito visceralmente l'urgenza di imbiancare la scuola, di disegnare, di stare lì in quei giorni: anzi direi che proprio la Sicilia e Libera sanno restituire il senso dell'urgenza. Ora non so più esattamente com'è andata: mi ricordo il sorriso sornione di Sergio che passava col sigaro tra le aule, tutti quei rulli uno dietro l'altro che quando la sera prima di partire siamo stati a Sortino ho detto ad Antonello e a Laura, davanti a un cielo poco uniforme: "bisognerebbe dargli un'altra mano...". E poi la cucina, la signora che ci portava il sugo di melanzane, Laura sui trampoli, le dita di Armando che si agitano nell'aria mentre parla. Forse dovrei salutare qualcuno: qualche bambino soprattutto (Giuseppe, sempre schizzato di bianco e mobile, mobilissimo, e Cristina, con cui giocavo a chi rideva per primo e che in questo gioco è bravissima, e Claudia, che assaltava la scuola dopopranzo per cercare Laura e poi fuggiva, ed Elisa che aveva un po' l'aria da mamma saccente, che ti guarda e ti chiede ma in fondo in fondo sa bene lei quello che va fatto) o forse i bidelli (la signora che mi guardava disperata per com'ero sporco di colore sulla barba). Però è strano, quasi fastidioso salutare ora, da qui, perchè la distanza non è solo geografica: sono le parole che non funzionano, le parole che a Bologna hanno sempre quel sapore di elegia. Bisogna trovare un modo di insinuarsi nel linguaggio incrinandolo per farvi pervenire questo testo ancora integro, magari un po' ammaccato. Più che il piccolo principe, per vedere bene davvero quello che c'è da vedere bisognerebbe occupare quasi fisicamente la distanza che ci separa, come faceva quel personaggio di Sartre che sparava a casaccio all'uscita di un cinema. Qui regna una separatezza continua, di cui non cesso mai di stupirmi: tanto che mi sorprendo a vagare di continuo per andare incontro alle cose, a toccare le persone per sentire se ci sono, cosa che a Francofonte non avevo bisogno di fare. Bologna è una città che ha la distanza dentro di sè, come un'impalcatura. Per questo qui la lotta è più tremenda: occorre spogliare ogni parola, ogni gesto del suo stato di soggezione a qualcosa o a qualcuno che l'ha fatto dimenticare nella sua essenza. Forse l'essenziale è invisibile agli occhi: ad Armando questa frase piace molto, l'ha fatta scrivere dappertutto nella sua scuola. Ma qui c'è di più: c'è che uno potrebbe chiedersi: quali occhi?
Released: February, 1998


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******July, 2000
 
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