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L’Iraq non è quello che sembra: intervista a Hana Al Bayaty

"La resistenza irachena è figlia della situazione in cui si trova, si sviluppa come reazione ad un sistema che non porta nessun beneficio alla popolazione..."

di Redazione - mercoledì 16 febbraio 2005 - 3724 letture

L’Iraq che ogni giorno ci viene descritto dalla gran parte dei mass media non è quello reale. Questo si può desumere da quanto ci ha detto Hana Al Bayaty, giovane regista irachena indipendente, durante l’inaugurazione di giovedì del Tribunale Mondiale sull’Iraq in Italia. L’organizzazione che ha sviluppato nel nostro paese, presso l’Università "Roma Tre", la sessione relativa alla "Violazione dei Media contro l’Umanità e la Verità" . Ecco perché.

Si parla di lotta tra Sciiti e Sunniti, ma qual è la vera situazione sociale del tuo paese?

Come vale per tutti i paesi, anche per l’Iraq si deve parlare di una realtà molto complessa. Uno dei problemi che attualmente caratterizzano l’informazione sull’Iraq è il fatto che la realtà viene analizzata dal punto di vista etnico o confessionale. Mentre questa società è ancora divisa in classi come la maggior parte dei paesi del mondo. E questo nonostante il sistema tribale o le appartenenze etniche o religiose. Ecco perché si sviluppano dei movimenti politici piuttosto che dei movimenti etnici o religiosi come si vuole far credere. Le vere divisioni attualmente sono tra nazionalisti, comunisti e islamisti. E l’unica grande divisione è quella tra la piccola parte della popolazione che collabora con l’occupazione e la maggioranza della popolazione che resiste.

Ci puoi dire qualcosa di più su questa resistenza?

La resistenza irachena è figlia della situazione in cui si trova, si sviluppa come reazione ad un sistema che non porta nessun beneficio alla popolazione, e avviene in modi differenti. C’è chi resiste con le armi e chi resiste politicamente e come civile. Ma la prima forma è minoritaria e portata avanti soprattutto da una parte della gioventù e degli uomini del mio paese. Mentre la seconda è sostenuta da vecchi, da molti giovani e dalle donne. E cerca di creare tutte le condizioni per alienare chi occupa il paese e impedire che questa aggressione si normalizzi. Si esprime attraverso il rifiuto di lavorare per l’occupante, con manifestazioni, e molto altro.

Perché i media internazionali parlano invece di terrorismo?

Ma questo non riguarda solo l’Iraq! Questo è l’appellativo che viene dato a qualsiasi movimento popolare del mondo. I media sono entrati in una crisi di rappresentazione della verità e della realtà sociale. Ciò vale comunque soloper quei media che sono più vicini al sistema e ai governi. Certo, questa crisi è particolarmente evidente in Iraq. Ma dipende dal fatto che la situazione è estrema: c’è una violenza altissima e gli intellettuali sono completamente disimpegnati. Così nessuno fa più delle analisi, e siamo scivolati nel "mondo dello spettacolo permanente". A cui i media partecipano. Ad ogni tappa dell’invasione viene fatto un nuovo spettacolo: quando sono entrati a Baghdad la prima volta, per il trasferimento dei poteri e, recentemente, con la vittoria della "democrazia" dopo le elezioni. Anche per questo la resistenza viene descritta come terrorista.

Cosa è successo con le elezioni che alcuni chiamano "democratiche"?

Ci sono state delle elezioni, un voto e dei candidati. Ma c’è una differenza tra elezioni ed elezioni democratiche. Organizzare elezioni democratiche sotto occupazione è impossibile. E’ una questione di gradi. Il grado di oppressione e di repressione da parte dell’occupazione guidata dagli Usa è molto, molto alto. Tanto che alcuni iracheni rimpiangono il regime di Saddam Hussein…che non era il minore dei mali! Ma in Occidente c’è una falsificazione rispetto alle elezioni. Basti pensare al numero di coloro che si sono iscritti per votare. Le cifre che arrivano da diversi movimenti politici iracheni parlano di una partecipazione che si attesta tra il 35% e il 40%, di cui la metà ha votato per la lista sostenuta da Al Sistani, che è contro l’occupazione. Il che vuol dire che al massimo un 15% della popolazione ha "votato per l’occupazione". Una vera disfatta! Ma qui tutto viene visto come la vittoria della democrazia o della libertà d’espressione. Quando, in realtà, la vittoria, con la conseguente argomentazione democratica, viene dichiarata solo per indebolire il movimento per la pace e per permettere all’invasione di essere più repressiva. Non a caso ieri (mercoledì per chi legge, ndr), in nome delle elezioni, sono state arrestate migliaia di persone in tutto il paese.

Con quest’occupazione molti giornalisti sono stati sequestrati. Secondo te stiamo assistendo ad una strategia precisa che vuole colpire la stampa libera ?

Penso che il giornalismo è in estrema difficoltà in Iraq. E i giornalisti dovrebbero organizzarsi per protestare. I giornalisti non fanno il loro lavoro perché da una parte sono integrati nel sistema di cui parlo e dall’altra perché molti di loro sono morti a causa degli "errori" della coalizione (uccisi dai militari dei loro paesi). Sui sequestri trovo molto strano che la resistenza popolare si renda - di fatto - impopolare agli occhi del mondo, scagliandosi contro chi lavora nella stampa o nel volontariato solidale. Questo mi solleva dei sospetti.

Quale lavoro e quale futuro per il Tribunale Mondiale sull’Iraq?

Il Tribunale è un processo che esiste da quando c’è l’occupazione. Una parte dei cittadini del pianeta si sono resi conto che non c’erano delle istituzioni legali capaci di fare il lavoro di ricerca e di raccolta delle informazioni e delle prove sui crimini contro la pace perpetrati dall’invasore. Ci siamo costituiti in cellule per rimediare a questi problemi. L’unico potere che abbiamo è quello di fare pressione grazie alle informazioni in nostro possesso da parte delle persone che dall’Iraq collaborano e attraverso il diritto internazionale preesistente, come il trattato di Ginevra.

Il futuro? Credo che l’impegno principale del tribunale dovrà essere quello di impedire la normalizzazione dell’occupazione, costruendo un dossier preciso da usare contro i governi che partecipano a questo crimine. Non so se riusciremo a impedire che lo commettano, ma forse impediremo loro di commetterlo attraverso il diritto.


Intervista a cura di Emanuele Profumi, pubblicata su www.aprileonline.info n° 199 del 12/02/2005. Hana Al Bayaty è una film-maker, attivista indipendente di origini irakene, vive in Belgio. E’ stata tra le firmatarie dell’appello del Brussels Tribunal e del Tribunale Mondiale sul’Iraq, "Contro l’escalation della guerra in Iraq" (settembre 2004).


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