Americanismi sovietici a Rostov

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Americanismi sovietici a Rostov

di Mauro Martini (Alias - 3 marzo 2002)

Dmitri Bakin non ha mai fatto mistero della sua ispirazione faulkneriana. Si può anzi dire che William Faulkner sia l’unico mentore che il giovane scrittore russo ammette apertamente. E la scelta talvolta gli è costata. Nel 1996, per esempio, allorché i racconti di Terra d’origine furono raccolti in volume dalla Limbus Press, sull’onda del successo che avevano conosciuto un paio d’anni prima in Francia in virtù dell’edizione di Gallimard, non furono pochi i critici che dimenticarono di aver plaudito ai medesimi testi man mano che erano apparsi in rivista a partire dalla fine degli anni Ottanta.

Sulla “Literaturnaja gazeta”, settimanale sempre alquanto prudente, per usare un eufemismo, nei confronti dei nuovi talenti, Aleksandr Ebanoidze elencò puntigliosamente tutti quelli che in Bakin gli sembravano degli insopportabili “americanismi”, arrivando a un verdetto finale piuttosto severo: «le storie raccontate sembrano svolgersi da qualche parte negli stati meridionali degli Usa, per esempio nella periferia di Memphis, certo non a Kišnema o a Chuguev».

E in effetti una cosa era stata stupirsi felicemente di fronte ai vari racconti singolarmente usciti sulle pagine di «Ogonëk» e di «Oktjabr’». Altra cosa invece era dover prendere atto della linea della prosa bakiniana che la raccolta lasciava intravedere. Linea sostanzialmente rimasta immutata, considerato che da allora l’autore si è limitato ad aggiungere soltanto altri due racconti e non sembra aver intenzione di intensificare la sua produzione.

Ora che Terra d’origine è disponibile in italiano (traduzione di Valerio Piccolo, postfazione di Byron Lindsey, minimum fax, Roma 2002, pp. 157, euro 11,50 pari a lire 22.300) è possibile verificare la consistenza di tale linea. Il faulknerismo di Bakin, per esempio, emerge con forza: i suoi personaggi sono uomini che continuamente si misurano con il problema faulkneriano per eccellenza, vale a dire quello della libertà, o meglio del modo in cui preservarla o, più di frequente, perderla.

In questo senso il racconto Ragione di vivere è magistrale, e non a caso esso fu prescelto per dare il titolo all’edizione francese. Un ex detenuto, Baskakov, si impegna fino allo spasimo nella costruzione di una casa che gli deve servire per definire il suo nuovo spazio di libertà e per far questo si indebita con il fratello che gli fornisce i materiali necessari, distraendoli dalla fabbrica in cui lavora, dietro emissione di un certo numero di cambiali. L’intento del fratello è chiaro fin dall’inizio: avvalersi delle cambiali per strappare la casa al suo edificatore. E alla fine il malintenzionato riuscirà nel suo scopo anche se perseguendo una via più tortuosa e narrativamente più efficace.

Ma il centro del racconto è la figura di Baskakov, uomo di pochissime parole, tutto concentrato nella conquista di una dimensione in cui vivere la libertà riconquistata dopo una carcerazione. Questa impresa, apparentemente nobile, si trasforma via via in una ossessione che, proprio come in Faulkner, corrompe l’aspirazione all’apertura in una dimensione sempre più claustrofobica. In tal senso funziona meno l’accostamento, spesso ricorrente nella critica, tra Bakin e Andrej Platonov: i personaggi platonoviani sono di gran lunga meno propensi alla coazione ossessiva, anzi tengono sempre ben vivo il loro desiderio di libertà.

La prosa di Bakin non è interessante tanto per i temi che affronta. Certo, può essere interessante scoprire l’altra faccia della Russia, quella provinciale, lontana dalle due capitali, e vedere come vi accadano vicende senza tempo. I racconti di Terra d’origine sono ambientati nel secondo dopoguerra sovietico e si va dal periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale fino agli anni Ottanta, ma della specificità dell’Urss non vi è gran traccia. L’attenzione dell’autore è rivolta pressoché esclusivamente alla primordialità delle passioni che squassano gli animi di personaggi lacerati dall’idea del limite, dei limiti che devono costantemente imporsi per non venir travolti dall’infinitezza del mondo. E’ il caso per esempio del Krajnov protagonista de L’agrimensore.

Molti dei nomi usati da Bakin sono significanti com’è proprio di una tradizione russa che ha il suo vertice in Gogol’, ragion per cui fin dal primo racconto, Foglie, si ha un Bedolagin che deriva dal termine per «poveraccio». Krajnov è l’uomo del kraj, del «margine». di un margine ritagliato a forza nella vita comunitaria e riservato alla famiglia che egli tiranneggia con la sua ossessione per il denaro e per il desiderio di venir rifuso del prestito ventennale sottoscritto con lo stato nel 1964. Oppure è il caso dell’anonimo protagonista del racconto eponimo, uomo che vive in straordinaria continuità con il suo passato familiare, portando nel suo cuore una pallottola pervenutagli per via ereditaria, ma che non riesce a padroneggiare la propria esistenza perché schiavo dell’appartenenza a un tempo altro.

Ma le storie di Bakin rischierebbero di apparire spesso come cervellotiche se non fossero sostenute da una prosa di rara potenza, in cui ogni singola parola è densa di suggestioni e di significato. E il tutto all’interno di periodi lunghi, sintatticamente complessi, addirittura lussureggianti nella ricchezza semantica dei vocaboli. Ogni racconto ha al suo centro una passione-ossessione che viene seguita nel suo sviluppo e nella sua espansione con un ritmo narrativo capace di far dimenticare la necessità di altro: il lettore viene inesorabilmente portato al centro di un universo il cui motore è quell’unica passione. E’ il motivo per cui in Terra d’origine l’amore ha poco spazio: la più ovvia delle passioni viene sconfitta da altre passioni assai più forti per la loro unicità.

Assolutamente coinvolgente è il modo in cui minimi scarti semantici individuano progressivamente la vera natura dell’avarizia di Krajnov: fame di denaro che è al tempo stesso fame di potere a fronte di un mondo che disarma i più deboli. Scarti semantici che si accompagnano alla descrizione del complesso codice onirico e mataforico cui ogni personaggio si attiene per informare il suo comportamento: a determinare la vita non è lo scontro tra la passione e la realtà, ma è il modo in cui la passione riesce a stravolgere la realtà imponendole le sue leggi.

Bakin in Russia è un caso editoriale. Di lui si sa pochissimo: che è nato nel 1964, che ha vissuto nei dintorni di Rostov prima di trasferirsi a Mosca, che ha sempre fatto il camionista, attività che non intende abbandonare perché la letteratura non gli sembra affidabile sul piano finanziario. Si sa anche che Bakin non è il suo vero nome: lo scrittore disdegna la notorietà, non vuole aver problemi con i compagni di lavoro, soprattutto non vuole aver nulla a che fare con l’ambiente letterario. Anni fa, alla consegna di un premio, l’Anti-Booker, mandò la moglie che si affrettò a ricevere la targa dalle mani di Michail Gorbacëv e poi si dileguò prima che qualche curioso potesse identificarla.

Ovviamente tutta questa discrezione crea curiosità e attenzione, ma si tratta di un dato assolutamente fuorviante. Se mistero c’è, esso consiste nella forza primigenia della prosa bakiniana, una prosa talmente priva di cultura da destare ammirazione per il modo in cui il suo autore sa individuare ogni volta senza impacci un luogo dell’anima umana da vivisezionare senza pietà.

 

Contesto

P come post-: nuovi scenari della letteratura russa

 


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