Schegge di Russia
RaiLibro - Intervista a Mario Caramitti, di Claudia Bonadonna
Anno II - Numero 29 - 14 Feb 2004
Nuova lingua, nuovo sentire, improvviso rapporto con le
leggi di mercato. Mario Caramitti, slavista e traduttore,
curatore dell’antologia di Fanucci Schegge di Russia,
ci fornisce un commento preciso e appassionato alle nuove
tendenze della letteratura del dopo perestrojka.
D. Dopo il crollo del regime, liberata dalle necessità
di propaganda o dissidenza, la letteratura russa è
diventata, per dirla con Viktor Erofeev, "a-sovietica".
E' d'accordo con questa dizione? E come giudica la sua evoluzione
durante gli anni Novanta?
R. Era un’illusione generale, un’impressione
che anch’io condividevo nei primi anni Novanta. Poi
hanno rifatto capolino alcuni malvezzi del recente passato,
come l’enfasi patriottica e la riproposizione dei
classici dell’Ottocento come anacronistico modello
estetico; e peggio ancora, l’intera eredità
culturale sovietica non è stata sottoposta a ostracismo,
ma quasi a nostalgico rimpianto. È però importante
chiarire che non tutta, ma solo la parte peggiore e più
superficiale della letteratura in lingua russa era inscrivibile
ai tempi dell’Urss nei criteri di propaganda o dissidenza.
Tutti i prodotti letterari più significativi del
secondo Novecento esulano in modo più o meno radicale
da queste ingombranti direttive. Molti geniali scrittori,
da Venedikt Erofeev a Saša Sokolov o Asar Eppel’,
potrebbero, a giudicare solo dalle loro opere, aver scritto
in un qualsiasi altro paese del mondo. Altri scrittori di
sicuro rilievo, che, senza sfidare né incensare il
regime, hanno coltivato soprattutto valori estetici inattuali
ora come allora, continuano a subire il dramma dell’oblio,
e i loro testi, oltre a rimanere nella stragrande maggioranza
inediti, rischiano addirittura di scomparire fisicamente
assieme ai loro autori. È d’obbligo segnalare
alcuni nomi, che direbbero poco o nulla anche al lettore
russo, ma che meritano assolutamente di essere riscoperti:
Pavel Ulitin, Rid Gračëv, Leon Bogdanov, Boris
Vachtin, Evgenij Charitonov. Se prima però la letteratura
russa si evolveva in rivoli sommersi, incomunicabili l’uno
con l’altro, oggi è innegabile che si sia creato
un nuovo indirizzo unitario, per intero sottoposto alle
leggi dell’economia di mercato. Leggi prima assolutamente
ignorate da quanti: scrivevano a gloria del PCUS; descrivevano
in Occidente - e non senza incoraggiamento economico occidentale
- gli orrori dell’Urss; affidavano le loro opere al
meraviglioso tam tam dei dattiloscritti ciclostilati, il
samizdat (di cui a torto in passato si è sottolineata
esclusivamente la connotazione politica); scrivevano consapevolmente
per il proprio cassetto. Venute meno (grazie a Dio) tutte
le circostanze di cui sopra, si è oggi alle prese
con le leggi del mercato, ed è naturalmente con questa
nuova spada di Damocle, più che con le grandi idealità,
che hanno dovuto fare i conti gli scrittori russi negli
ultimi dieci anni.
D. A me pare che, rispetto alle alte necessità
didattiche e morali del passato, si vada verso una dissacrazione
del testo e delle fonti. Possiamo parlare di una sdrammatizzazione
in senso "pop" dell'attitudine letteraria? (penso
per esempio a certe cose di Pelevin o al caso di Sergej
Bolmat...)
R. È vero fino a un certo punto. Mentre con l’aria
che tira sarebbe del
tutto logico che a nessuno passasse più per la testa
di farsi vate o, come
vuole la tradizione letteraria russa, “poeta che è
sempre più che poeta”,
e cioè ammaestratore delle coscienze e attore prioritario
delle dinamiche
sociali, invece è successo proprio questo. E del
sempre più acceso
dibattito politico e sociale si sono fatti campioni ancora
una volta i
letterati: da Oleg Pavlov, uno degli autori di Schegge di
Russia più
apprezzati dai lettori e dai recensori italiani, ad Aleksandr
Prochanov,
che in un pessimo romanzo ha efficacemente denunciato le
responsabilità
dei servizi segreti nei terribili attentati del ’99
di cui si sono
strumentalmente accusati i ceceni. Ma quello che veramente
sorprende è che
il pubblico continua a starli a sentire, e la letteratura
tutta continua a
rimbalzare sui mass media più attuali e vincenti
con una frequenza e un
risalto che nel nostro velinario nazionale farebbe drizzare
i capelli in
testa a qualsivoglia gestore dei multimilionari secondi
di etere.
Per altri versi è però innegabile che l’introduzione
dell’economia di
mercato abbia radicalmente mutato il panorama letterario
russo. È sorto
dal nulla un intero sistema di case editrici, il commercio
librario ha
subito drammatici soprassalti in termini di prezzi e quantità,
anche se
oggi appare parzialmente stabilizzato. Ma il brutto è
che la letteratura
come professione è ritornata possibile in Russia
in un momento in cui
difficilmente può garantire il sostentamento a chicchessia.
Molti
scrittori si sono così dovuti “riconvertire”,
come i mastodonti
dell’industria bellica sovietica, improvvisandosi
giornalisti,
pubblicitari, portaborse dei politici e dei mafiosi e non
di rado
commercianti. Per continuare a scrivere con un minimo di
ritorno economico
è stato perciò inevitabile adeguarsi ai modelli
occidentali e a un
postomodernismo in ritardo sui tempi che ha costituito per
tutti gli anni
Novanta un dominante quanto confuso punto di riferimento,
con le ovvie
propaggini trash e AvantPop. Accanto agli epigonismi di
bassa lega c’è
stato però anche chi i modelli occidentali li ha
riproposti vistosamente
rivisti e corretti. Basti guardare Generation P di Pelevin,
che riflette
in maniera penetrante il travaglio del letterato in via
di
copywriterizzazione di cui sopra. Mentre il caso Bolmat
ha mostrato tutte
le potenzialità di quella che potrebbe essere la
vera grande novità in
arrivo dalle steppe dell’Est, e cioè l’impatto
potenzialmente
rivoluzionario della rete sul discorso letterario: attraverso
una campagna
abilmente orchestrata e gestita per intero su Internet,
che prevedeva
anche la pubblicazione integrale in anteprima, il romanzo
I ragazzi di San
Pietroburgo è stato trasformato nel più grande
successo di vendite
cartacee del 2000.
D. Mi spingo più in là: possiamo parlare
di "occidentalizzazione"?
R. Come ho già detto una forte dose di occidentalizzazione
è più che
ovvia, anche se il suo speso specifico è superiore
nei prodotti che
importiamo di quanto non sia in termini assoluti. E senza
dubbio c’è molta
più occidentalizzazione nella società che
nelle lettere russe.
D. Nell’introduzione a Schegge di Russia scrive:
"...Altra vocazione radicale delle lettere russe è
quella che, sulla scorta di Celine o Doubrovsky, ma senza
suggerire alcune ascendenza diretta, potremmo chiamare autofiction...”
. Può illustrare il concetto?
R. Anche questa, guarda caso, non si è affatto
insabbiata con l’avvento
della nuova era. E di nuovo siamo di fronte a un fenomeno
originale, pur
se affine a un impalpabile fermento capillarmente diffuso
in Occidente tra
gli anni Sessanta e Ottanta. Anche se nessuno leggeva Céline
o Doubrovsky
ha cioè attecchito con grandissima rapidità
sul suolo russo quel
sentimento che, davanti alle sempre più scarse attrattive
della forma
romanzo, convogliava le energie creative sul canovaccio
autobiografico
dell’autore, trasformandolo nell’oggetto primario
e quasi esclusivo di una
narrazione totalmente inattendibile. Esattamente quello
che Serge
Doubrovsky ha definito autofiction. Da spunti del tutto
analoghi sono nati
alcuni capolavori assoluti, come Tra Mosca e Petuški
di Venedikt Erofeev,
che Fanucci sta per ripubblicare in una mia nuova traduzione,
e
Buonanotte! di Sinjavskij. Ma la vitalità di questa
forma è
impressionante, da Evgenij Popov a Jarkevič, Sergeev,
Sapgir, Klimova fino
alla giovanissima Irina Denekina. Fare se stessi protagonisti
esclusivi
della propria arte da un lato perpetua, nella dissimulazione
e
nell’autoironia, l’antica vocazione del vate,
dall’altro pone questa forma
estetizzante ed elitaria di prosa in diretta continguità
con la grande
vittima dell’evoluzione letteraria del secondo Novecento:
la poesia.
D. La lingua letteraria russa è notoriamente carica
di sottotesti e riferimenti che ne rendono difficile la
traduzione. Com'è stata quella di Schegge di Russia?
E come si è trasformata la lingua (letteraria e non)
nell'ultimo decennio?
R. Ammettiamo che un russo sia emigrato - caso non raro
- alla fine degli
anni Ottanta, e da allora se ne sia stato buono buono a
Roma o a Sidney,
senza leggere né sentire nulla della madrepatria.
Se oggi aprisse a caso
un giornale russo o ascoltasse due ventenni che conversano
tra loro,
resterebbe di sasso. Non escludo che potrebbe avere anche
serie difficoltà
di comprensione. Il fatto è che la letteratura, pur
dispersa tra i vari
rivoli della resistenza individuale, della dissidenza e
dell’emigrazione,
non si era mai realmente insabbiata nelle malsane paludi
del realismo
socialista. La lingua comune invece aveva subito dei radicali
processi di
involuzione, e nella tarda era sovietica lo standard era
rappresentato non
dal parlato, ma da un’orripilante lingua scritta,
impacciata e carica di
stereotipi. Demolendola e demolendoli, si è aperto
un vaso di Pandora,
stracolmo di neologismi, espressioni gergali, termini popolari.
L’impatto
è stato così forte che traballano non solo
le norme del “buon gusto”, ma
le stesse strutture tipologiche della lingua. Muta cioè
persino l’uso dei
casi, sotto un diluvio di parole straniere indeclinabili,
in ogni angolo
di un testo cirillico si annidano in posizioni di prestigio
sempre più
parole scritte in caratteri latini. Di fronte a tanto cataclisma
può
apparire davvero secondario accertare quanto e in che direzione
sia mutata
la lingua letteraria. Che da un lato si è industriata
per tener testa a
tante novità, comunque indigeste o poco digerite,
dall’altro ha visto
interrompersi ed esaurirsi molte delle strade percorse in
precedenza. Dopo
la necessaria sedimentazione c’è però
da aspettarsi che proprio da questo
sfrenato caos linguistico possano scaturire nuovi e avvincenti
percorsi
artistici.
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