«Siamo venuti negli Stati Uniti | per imparare a storpiare il nostro nome | per smaltire la definizione d'orgoglio | per avere la sfortuna dalla nostra | per vivere dove s'aggirano topi e scarafaggi | in una casa non proprio nostra | per imparare a accendere televisori | per sognare posti di lavoro che non avremo mai | per riempire i moduli dell'ufficio assistenza | per lasciare la scuola privi di cultura | per essere arruolati, manipolati e distrutti | per lavorare a tempo pieno e essere comunque disoccupati | per attendere la dichiarazione dei redditi | e restare come ubriachi e perdere ogni interesse | per il cuore e l'anima della nostra razza»Pietri è un poeta dell'emigrazione. Si muove tra tradizione e modernità, tra miti caraibici e leggende metropolitane statunitensi: tra il "jibaro" (il contadino indigeno portoricano) e il "grafitero" (il giovane del ghetto newyorkese). Di qui lo sradicamento: «Che tu comprenda | quant'è disorientante | essere una nuvola in un mondo | senza un cielo lassù». E ancora: «Sono morti | e dai morti non faran ritorno | finché non la smetteranno di trascurare | l'arte del loro dialogo» «sono morti tutti lavorando aspettando e odiando». Di qui la sensazione di spossessamento, che è la condizione dell'uomo nel mondo: «Tutto quel che posso dire in verità di me stesso | è che dopo il lunedì viene il martedì».