Il salotto di Margherita Sarfatti, di Simona Urso

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Il salotto di Margherita Sarfatti, di Simona Urso

In molte ricerche spesso quando si parla di salotti si allude ad una dimensione della sociabilità borghese, e ad una nuova funzione femminile, a modelli e rituali che attraversano i decenni e mutano. In altri casi studiare i salotti significa studiare quanti li frequentarono, i cenacoli culturali e intellettuali che vi si formarono, i reticolati di saperi e conoscenze che vi si attivarono: in generale, come è noto, il salotto risponde ad una triplice funzione: informativa, formativa e legittimante. Se questo è vero per i salotti ottocenteschi [1] , che sono parte di un processo di costruzione dell’identità borghese, con l’inizio del secolo successivo in realtà tale “modello” muta, non solo nelle forme, ma sicuramente nei contenuti veicolati, e nella personalità delle padrone di casa [2]

Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, il nuovo impegno delle donne istruite e arbitre dei salotti era rivolto alle opere di assistenza e beneficenza o orientato politicamente in senso emancipazionista, o, come nel caso della Kuliscioff, era quasi il sostituto di una sede di partito. Si è soliti affermare che, proprio per questo, i salotti cominciarono a perdere quel carattere di sociabilità borghese che li aveva contraddistinti fino ad allora; sembra così, in apparenza, tramontare anche il ruolo delle dame salonnières, che aveva trovato espressione nelle conversazioni letterarie o nei dibattiti patriottici.

Se questo è in parte vero per alcuni dei salotti primo novecenteschi, non è così in tutti i casi: il salotto Sarfatti, ad esempio rivela una nuova forma di sociabilità e probabilmente anche una salonnière  di tipo nuovo.

A creare questo tipo nuovo di “padrona di casa”, è soprattutto la comparsa, in età giolittiana, di una élite intellettuale nuova, fatta di giornalisti, operatori culturali, costruttori di opinione, che ha nuovamente bisogno, come l’élite borghese del secolo precedente, di luoghi in cui trovarsi e riconoscersi: il salotto diventa così anche luogo di costruzione identitaria  di questa nuova élite. E il salotto Sarfatti fu centrale, nel dare a questa nuova élite un luogo anche mentale in cui riconoscersi. Se esso possiede una propria unicità, essa dipende dal fatto che, solitamente, la stessa nuova élite aveva altri luoghi in cui incontrarsi: le case editrici, le librerie, le redazioni dei giornali.

Ma il salotto Sarfatti fa eccezione, perchè, grazie alla padrona di casa, esso seppe esercitare, in più occasioni, la stessa funzione di quei luoghi “neutri”, in cui la società degli uomini (ché la maggior parte di questi nuovi intellettuali della penna erano uomini) si ritrovava. Ciò essenzialmente per due motivi: la padrona di casa, donna, voleva entrare in quell’ambiente, essere riconosciuta come un intellettuale alla pari con quella nuova società intellettuale soprattutto maschile, e ci riuscì: prima di poter avere accesso a quelle sedi (giornali, cenacoli, caffè mostre d’arte), e per poter in seguito avere accesso a quelle sedi, ne fece entrare i protagonisti in casa propria.

Il salotto di Margherita Sarfatti fu così il modo in cui la donna riuscì a trovare un proprio spazio a Milano, ove si era trasferita da Venezia, nel 1902, per seguire il marito, dirigente socialista. Questo mondo accolse i Sarfatti, che avevano scelto di abbandonare Venezia perché troppo stretta per le loro ambizioni politiche [3] , in particolare quelle di Cesare, avvocato brillante e buon politicante, anche se non troppo fortunato [4] .    

I due erano socialisti e israeliti, e la città in cui scelsero  di traslocare era non solo il centro propulsivo del socialismo italiano, ma  era animata anche da  una comunità ebraica forte, impegnata in parte nel partito socia­lista, in parte nelle imprese filantropiche. Spesso in entrambe contemporaneamente. Ma l’approdo fu una delusione.

Quando i coniugi Sarfatti si trasferirono a Milano la città stava attra­versando l'ultimo decennio di una vitalità intellettuale e politica che ancora la legava alla cultura di fine secolo, e cui fa invece da contrappeso una vitalità eco­nomica in espansione. I Sarfatti assistettero così, da protagonisti, al passaggio di consegne che stava segnando definitivamente il tramonto della Milano scapigliata, cavallottiana, e anche turatiana.

Questo passaggio era la risposta milanese alla crisi di fine secolo, la risposta della sua borghesia, che riusciva a produrre, con il nuovo secolo, una forte industria editoriale e un numero consistente di letterati "di consumo", ma che perdeva terreno nel dibattito culturale, recuperandolo parzialmente solo dopo il 1910. Alla capitale morale ed intellettuale si  stavano sostituendo così  altri centri di irradiazione.  Tutto ciò avviene contemporaneamente alla crisi del giolittismo e della cul­tura positiva, di cui rimanevano però ancora salde le esperienze pratiche della filan­tropia borghese, della Società Umanitaria e del riformismo socialista.

Proprio questo mondo, che fu l’inevitabile primo approdo della nuova arrivata, però, non la riconosceva come individuo separato dal marito o dall’ambiente che ruotava attorno alle tematiche femministe: il salotto fu il modo in cui riuscì ad affrancarsi da un contesto politico e culturale che in una donna accettava l’attività filantropa o suffragista [5] , ma che nella stessa donna faticava a riconoscere una intellettuale e una giornalista di cultura, per altro ben lontana, come impostazione culturale, dallo stantio orizzonte che il partito e i luoghi ad esso vicini rappresentavano.

Il suo salotto fu così il risultato di un processo di autonomizzazione intellettuale da un partito, quello socialista, cui apparteneva, ma che intellettualmente era insoddisfacente e alieno alla sua formazione. Lo dimostrano le difficoltà che incontrò, appena giunta in città, per farsi largo in quanto intellettuale  e critico d’arte, attività in cui si era cimentata a Venezia, e con successo, fin dai primi anni del matrimonio: ma a  Milano trovare spazio fu difficile. Nei suoi primi anni rimase in contatto con giornali veneziani, su cui comincia a scrivere d’arte, la materia che più sente congeniale: collaborò a «Il Secolo nuovo», che aveva contribuito a fondare con il marito e Elia Musatti, a «La Gazzetta degli Artisti», in cui dominava la personalità di Mario Morasso, ove si occupa delle Biennali d’arte, dirette fino al 1920 dal suo maestro Antonio Fradeletto. Trovò spazio per breve tempo anche su La Patria di Roma, ove recensì ancora le mostre veneziane. [6]  

A  Milano inserirsi fu ben più arduo: accreditarsi presso i socialisti milanesi non solo come una intelligente attivista ma come una intellettuale e scrittrice d’arte non le sarebbe stato facile. [7]

Frequentò le emancipazioniste milanesi, ma senza grandi fervori, e solo perché le permettevano di inserirsi in città: in quanto donna era obbligata ad accedere prima ai luoghi del’emanicipazionismo, per poi conoscere coloro che l’avrebbero condotta verso quegli spazi che in realtà le interessavano, e che sono maschili: le redazioni culturali dei giornali, le gallerie d’arte. Capì immediatamente che, da giovane donna e moglie di esponente socialista, era difficile trovare spazio nella politica degli uomini e che nel giornalismo intellettuale l’impresa era anche più ardua. La sola possibilità era forse quella invece di avvicinare intellettuali più ancora politici e artisti ( non dimentichiamo che era critico d'arte) nei salotti degli altri, anzi, delle altre. In particolare nel salotto Kuliscioff nel salotto Ravizza e in quello di Ersilia Maino.

La Milano delle attività “pratiche”  della società Umanitaria, dell’Unione Femminile e delle iniziative ad essa collegate, come l’Asilo Mariuccia, fu infatti, per i due Sarfatti, di più facile accesso : il marito tiene corsi all’Università Popolare ed entra nel Consiglio della medesima. Entrambi frequentarono casa Ravizza, il salotto dei Majno [8] , e Margherita cominciò, dal 1902, a collaborare all’ «Unione Femminile», periodico della omonima associazione emancipazionista presieduta da Ersilia Majno. [9]

Questo le fornì l’occasione per far nuove conoscenze, conoscenze che le servirono anche per poter entrare nell’unico mondo che le interessava, quello del giornalismo colto e della critica d’arte, per potersi ritagliare anche un ruolo di operatrice culturale e organizzatrice di mostre: doveva uscire da un anonimato che non le era congeniale a cui a Venezia non era abituata [10] . Si era spostata a Milano proprio per ampliare le proprie ambizioni.

Comprese subito che solo gestendo in prima persona il traffico degli inviti avrebbe potuto ottenere veramente di gestire le conoscenze attivate in casa altrui, e controllarle, farle fruttare, diventando a propria volta un tramite per altri: agevolata anche dalla posizione del marito aprì così anch’essa un proprio salotto, (d’altra parte a Venezia ne aveva frequentati e considerava questa pratica quasi naturale per una esponente dell’alta borghesia ebraica). Fu quindi “apprendista salottista” a casa delle tre straordinarie donne che abbiamo citato, ma non le emulò mai perché il solo interesse che aveva, a parte conquistarsi un pezzetto di nomea cittadina era promuovere se stessa e dimostrare che il suo non sarebbe stato un salotto della buona borghesia ma una vera e propria factory    

1906 – 1910

Decise perciò di aprire il proprio salotto per portasi letteralmente “il lavoro in casa” e conoscere quanti potevano esserle utili ad una carriera professionale: ogni suo mercoledì servì quindi soprattutto ai suoi scopi. In questo senso non era diverso forse da quello della Kuliscioff nel quale, si impostava probabilmente parte della politica socialista.

Ma la Sarfatti era intenzionata a fare del proprio esclusivamente un luogo ove proporre se stessa. L'elemento centrale del suo salotto non erano gli ospiti, era lei stessa, che tentava, mostrandosi donna colta, intellettuale, di trovare agganci e dimostrarsi, nella conversazione colta, all’altezza egli uomini presso i quali voleva essere accreditata come intellettuale di professione. Casa sua divenne il luogo in cui avrebbe potuto conoscere i critici d'arte con cui voleva lavorare e nel contempo gli artisti che era intenzionata a promuovere; in seguito, sapeva, sarebbero stati loro ad andare da lei, una volta che casa sua avesse assunto il ruolo di un luogo di propagazione di iniziative.

Non possedendo un giornale da cui scrivere, non possedendo una galleria, non essendo un accademico, non avendo un luogo materiale in cui esercitare una professione,  promosse così l’arte organizzando mostre, e firmando cataloghi. Solo così “l’Avanti!”,  «L’Illustrazione Italiana», «La Cultura Popolare», «IL Marzocco», «L’Avanti della Domenica» avrebbero potuto darle credito. Fu una free lance, accreditata da ciò che stava “scoprendo” invitando in casa propria quanti conosceva alle mostre (dove dal 1909 grazie ad una grossa eredità poté cominciare ad acquistare)  o nei salotti altrui. 

Era riuscita così ad avvicinare i pittori futuristi, Boccioni, a costruire dal nulla il gruppo di nuove tendenze: invitandoli a casa propria, e mostrando le proprio collezioni di quadri, autopromuovendo la propria capacità manageriale e le collaborazioni avute a Venezia con Antonio Fradeletto [11] riuscì a convincerli di poter essere per loro qualcosa di più di un critico d'arte. Fu quindi il primo caso, ritengo, di salotto non solo culturale, ma di impresa casalinga.

E questo fu il suo primo apprendistato. Quando si rese conto che attraverso il proprio lavoro di critico d'arte poteva veramente diventare anche altro, decise di giocare uan nuova carta. Ormai aveva vinto la propria battaglia nel modo dell’arte altre, i luoghi per fare affari e organizzare mostre erano ormai le mostre stesse, un altro spazio della sociabilità che purtroppo sfugge spesso a chi analizza i cenacoli intellettuali.

E in più si accorse di aver creato una macchina di circolazione delle idee, con ospiti ormai fissi: Ada Negri, Alfredo Panzini; a rotazione, Vitorino Pica e Antonio Fradeleltto e Pompeo Momenti in vista, Virgilio Brocchi, Lino Pesaro, i Wonwiller, i Rignano i Della Torre e un’ampia parte della comunità ebraica, ancora la Ravizza, Paolo Buzzi, Alfredo Siciliani, Boccioni e Sant’Elia Leonardo Dudreville e tutto il gruppo di Nuove Tendenze, senza dimenticare i giovani de «Il Rinnovamento», soprattutto Alessandro Casati, Antonio Soragna e Stefano Jacini; e in più molti altri modernisti, l’amico di sempre Fogazzaro e il prete di strada Brizio  Casciola [12] .    

1910 - 1914

Fu la macchina costruita a farle comprendere che avrebbe potuto usarla indipendentemente dal contenuto. L’arte non le bastava più. E cominciò il suo sodalizio con l’ambiente vociano, un ambiente che frequentava da associata alla Libreria della voce, da scrittrice sul bollettino e sulla rivista medesima. Ma per rappresentare a Milano un’anima vociana, per rendersi credibile a Prezzolini con cui intratteneva rapporti epistolari, e a cui chiedeva costantemente di collaborare, decise di trasformare casa propria nella sede delle conferenze dei sacerdoti modernisti malvisti in sedi ufficiali dopo l’enciclica Pascendi. Malvisti in sedi ufficiali ma molto apprezzati a quel tempo da Prezzolini stesso e da molti vociai (Boine, Papini, Slataper, Amendola, Cardarelli), Casciola, e Minocchi in particolare (ma anche Romolo Murri) [13] .  Cominciò così ad ospitare conferenze di Semeria e Casciola, e divenne il punto di riferimento di quanti ancora desideravano ascoltare questi sacerdoti “apostati.

Organizzò conferenze sulle religioni orientali, sullo spiritualismo e sulle filosofie irrazionaliste: a parteciparvi, oltre  ai “soliti” già citati, anche Fernado Agnoletti, Luigi Ambrosini, Boie, Amendola, Borgese. Non mancò mai, inoltre, di invitare ripetutamente Alessandro Casati, non più in veste di giovane intellettuale modernista, questa volta, ma in quanto principale finanziatore e de «La Voce».

Quando dal 1912 queste sedute cominciarono a farsi frequenti, e i rapporti con Prezzolini più forti, la vociana decise di osare di più. A queste sedute partecipava anche Mussolini, che non a caso, proprio nel 1913, con il suo aiuto fondò «Utopia», rivista del socialismo idealista; la rivista è frutto della capacità sarfattiana di far incontrare prima in casa propria,  e solo successivamente nelle redazioni delle riviste (spesso anch’esse case private), i futuri collaboratori del progetto.

Il salotto stava diventando così, anche grazie alla “progettazione” di “«Utopia», il luogo in cui Mussolini, grazie alle discussioni teoriche che vi si tenevano, cominciò a corrispondere all’ideale di uomo vociano che Prezzolini da tempo andava cercando. L’uomo nuovo, tanto ricercato da Prezzolini su “La Voce”, fu anche un prodotto della Sarfatti prezzoliniana e della sua influenza su Mussolini, che presso di lei fece un vero e propri apprendistato culturale,

Fu grazie alle discussioni dentro il salotto Sarfatti, per esempi, che Mussolini imparò a conoscere, nelle discussioni  l’esistenza dei «Cahiers de la quinzaine», modello della Voce e di Prezzolini, attraverso l’incontro con Daniel Halevy. Casa Sarfatti era infatti anche il primo luogo in cui venivano discussi e presentati i libri che venivano d alei acquistati preso la libreria della Voce: Il materiale acquistato, come dimostra la presenza di Fingley, libro dei  Tharaud, è tratto dalla Librairie Bellais [14] , e quindi dall'ambiente gravitante attorno ai Cahiers di Péguy, probabilmente uno dei legami più forti fra Margherita Sarfatti e «La Voce»:  Péguy, Daniel Halévy, Romain Rolland e Anatole France, che cominciarono ad entrare, probabilmente solo allora nella sua personale biblioteca, erano tutti da tempo punti di riferimento  del gruppo vociano [15] . Successivamente alle richieste di libri, infatti, Margherita  Sarfatti, andò a Parigi per la prima volta, cono­scendovi Péguy, Halévy, e tutti i collaboratori dei Cahiers [16] . E loro restituirono la vista, trasformando ulteriormente la casa in un luogo di scambio e confronto culturale fra Italia e Francia.

Anche in questo caso, però, la padrona di casa cercava attraverso il salotto di costruire se stessa, proporre se stessa come una peguyana, un esponente di quello che Emilio Gentile aveva chiamato italianismo, quel nazionalismo vociano che vedeva negli intellettuali i veri e soli tramiti far mondo della politica e società civile. E fece questo non solo perché le pareva di aver scoperto la propria vocazione politica, ma soprattutto perché aveva  sposato le speranze di Prezzolini su Mussolini. E a beneficio di Mussolini, fino almeno all’inizio della guerra. 

L’ultima metamorfosi avvenne dal 1915, con la  versione “Sarfatti interventista”. Dopo aver scritto un libro di successo La milizia femminile in Francia, (Rava 1915), in cui inneggiava alle attività sul fronte interno delle donne francesi, casa sua diventò un vero e proprio focolare del fronte interno. Non più salotto, ma luogo da cui partivano le attività per gli orti di guerra, e le altre iniziative del sindaco Caldara, cui collaborava accanto ad altre donne. Quartier generale della femminilità sul fronte interno, collaborò con Carla Lavelli Celesia, ma sempre imponendo casa propria per le riunioni. Lo spazio fisico del salotto in questo caso si allargava all’intera casa, in cui si raccoglievano materiali e indumenti, ma le discussioni dei comitati (la sarfatti partecipava a tutti i sottocomitati per gli sfollati) avvenivano, per volontà della padrona di casa, nel salotto [17] . Fu la prima volta, probabilmente, in cui il salotto si animò quasi esclusivamente di donne, ognuna delle quali con un compito legato alle attività milanesi su fronte interno.

1919 - 1924

Con la fine della guerra tutto cambiò. Ma questa è un’altra storia e riguarda le vicende fasciste, e quanti come la Sarfatti vi parteciparono.

Ma questa storia successiva riguarda anche un nuovo tipo di salotto, che meriterebbe una trattazione a sé, e qui per scelta infatti non è trattato.  Poche parole su questa ultima fase è però opportuno spenderle.

Ormai, nel primo dopoguerra, la Sarfatti  non aveva più bisogno di autopromozione mondana, politica e cultuale, perché era già stata “promossa” dalla morte in guerra di un figlio diciottenne, dalla consacrazione fra i fascisti più attivi di Milano, e dalla ormai salda attività di giornalista culturale. Accanto al lavoro di promozione e autopromozione nel settore artistico, che per sua natura aveva bisogno di un luogo di rappresentanza e contrattazione [18] , il salotto Sarfatti divenne il luogo di elaborazione teorica del primo fascismo, una sala riunioni sempre piena, lo studio di un politico, e in molti casi un secondo ufficio di Mussolini.

Ricordiamo che la donna, nello spazio della casa, non possiede uno “studio”, com non possiede  quais mai un “ufficio”, un’interfaccia con l’esterno (luoghi simbolico cui varrebbe la pena spendere parole per quanto riguarda invece le forme del poter maschile, per chi un giorno ne voglia studiare la storia sociale ); ospitando in casa propria Mussolini, la Sarfatti attribuì al proprio salotto quindi  una nuova funzione, proiettiva di quella del potere maschile a cui si era affiancata e di cui si era fatta corifea, Mussolini e il suo fascismo [19] : uno spazio semipubblco, una “factory “ del fascismo”, il corrispondente femminile dello studio. 

Dopo il 1924

Quando nel 1924 si trasferì  Roma, il salotto divenne qualche cos’altro, una meta di postulanti, un luogo ormai privo di una funzione che non fosse quella di rappresentanza del fascismo, un salotto buono in cui invitare quanti necessitavano una raccomandazione, una qualche forma di protezione [20] , o ancora di più, un luogo in cui si tesseva l’attività diplomatica del regime, in particolare con interlocutori americani.

Il ruolo del salotto, quindi, cambia ancora, sia rispetto alla stagione emancipazionista, che a quella del primo fascismo. Tale slittamento di funzione  è tipico dei salotti fascisti: cambia quello della Sarfatti, ma lo stesso avverrà per altri salotti fascisti (mimì Pecci Blunt, Fernanda Wittgens, per citare le più note). Il salotto diventa il luogo in cui la salonnière può esercitare un nuovo tipo di potere, nei confronti del personaggio maschile e del potere governativo. Ritorna, se vogliamo trovare un modello di riferimento, ad avere una funzione analoga a quella dei salon sei - settecenteschi, quasi che la fase intermedia, quella dell’affermazione, e poi dell’emanicipazionismo, che passa indubbiamente per i salotti, fra otto e novecento, non fosse mai realmente esistita: il potere sulle masse, e il controllo della “rappresentazione” del potere vanno così a braccetto, in un gioco un cui il dominio maschile si sposa con le antiche abilità femminili.

Il salotto Sarfatti, proprio per questa sua fisionomia, ovviamente tramonta quando la sua proprietaria smette di avere una funzione all’interno del regime, alla fine degli anni venti [21] .

Conclusioni

Proporre un ragionamento sui salotti, e sulle salonnière, significa anche, ovviamente, entrare nella storia del genere, delle contrapposizioni di genere, della modalità femminili di avvicinamento ad un mondo che fuori dei salotti era visto come maschile.

Il salotto è uno spazio, fisico e simbolico, e parlo ovviamente per il periodo che conosco meglio, il primo novecento, in cui la donna protagonista prova ad esercitare un potere da cui è estromessa all’esterno. Con il fascismo, come ho anticipato, le forme di questo potere femminile mutano radicalmente.

Ma questo presuppone anche un nuovo angolo di visuale per riparlare di storia politica delle donne. Non è solo la dimensione della sociabilità, della circolazione intellettuale, ad emergere, nel primo novecento, ma qualche cosa di più: da un lato è la persistenza di un luogo che resiste ad un certo tipo di modernità, quella che vede emergere da una società civile una società politica. Ma proprio questo testimonia che il salotto, nella storia politica delle donne rappresenta, e la Sarfatti del primo novecento ne è un esempio (ma anche la Sarfatti successiva), lo spazio politico e di manovra che le donne  si ritagliano allo scopo di intervenire ed essere protagoniste nella sfera del potere. Un modo, se vogliamo di entrare da un altra porta, nei luoghi in cui le decisioni vengono prese. Proprio perchè la storia politica delle donne è ancora un oggetto troppo poco presente in chi studia le dinamiche dei rapporti fra i sessi, sotto questa nuova chiave interpretativa il salotto diventa il sostituto dei diritti negati, oltre ad essere il luogo di elaborazione (è il caso del salotto Majno, per esempio [22] ) per condurre una battaglia in nome di quei diritti negati. In altri casi, tocca un altro tasto della storia politica delle donne, il rapporto con il potere, il conflitto tra i sessi, il rapporto tra morale e potere; il cammino delle donne ha dovuto percorrere dopo la già studiata ed esemplare, in questo senso, questione dell’emanicipazionismo, un impervio tragitto nella storia politica. E credo che questo sia un tema su cui la riflessione storiografica ancora non è matura.

Simona Urso



[1] Cfr. Su questo Maria Teresa Mori, Salotti: la sociabilità delle élite nell'Italia dell'Ottocento; prefazione di Marco Meriggi, Roma, Carocci, 2000; Marc Fumaroli, Il salotto, l'accademia, la lingua : tre istituzioni letterarie, traduzione di Margherita Botti, Milano, Adelphi, 2001; Daniela Pizzagalli, L' amica: Clara Maffei e il suo salotto nel Risorgimento italiano, Milano, Mondadori, 1997 ; Verena von der Heyden-Rynsch, I salotti d'Europa, Milano, Garzanti, 1996 ; Anna Maria Verna, Donne del Grand Siècle, Milano, Franco Angeli, 1994; Benedetta Craveri, La civilta della conversazione, Milano, Adelphi, 2001; Benedetta Craveri, Madame du Deffand e il suo mondo; con un saggio di Marc Fumaroli , Milano, Adelphi, 2001; Marie de Sevignè, Alla figlia lontana, Lettere 1671-1690, a cura di Maria Schiavo, , Roma, Editori Riuniti, 1993; Hannah Arendt, Rahel Varnhagen: storia di una ebrea; a cura di Lea Ritter Santini, Milano, Il Saggiatore, 1988; Dal salotto al partito. Scrittrici tedesche tra rivoluzione borghese e diritto di voto, a cura di Lia Secci , Roma, Savelli, 1982; Carteggio Tenca-Maffei a cura di Lina Jannuzzi, Milano, Ceschina, 1973; Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù; pagine scelte, a cura di Bianca Vita, Torino, G. B. Paravia, 1967 ; Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei nuova ed., Milano, Garzanti; (1895, 1°), 1944 ; Olimpia Savio, Memorie della baronessa Olimpia Savio, a cura di Raffaello Ricci, Milano, Treves, 1911.

[2] Cfr. Roberta Fossati, Elites femminili e nuovi modelli religiosi nell'Italia tra Otto e Novecento, Urbino, Quattroventi, 1997, in cui si avvertono le forme i contenuti di questo passaggio, che affianca novità (soprattutto politiche) e persistenze (soprattutto rituali).

[3] La politica per i socialisti veneziani non è cosa facile, soprattutto perché il gruppo cittadino è ristretto ed avulso dalla realtà sociale delle campagne. Ed è arduo per la coppia Sarfatti imporsi politicamente in un ambiente ristretto in cui sono presenti altri due leader, Carlo Monticelli ed Elia Musatti. Nonostante il lavoro fatto insieme per ricostruire la Federazione, nel 1900, dopo i due anni di illegalità, e la creazione del "Secolo Nuovo", giornale socialista veneziano, le differenze tra Cesare Sarfatti e i due compagni vanno aumentando. Deter­minante, forse, è la scelta riformista di  Cesare, in contrasto con gli orientamenti rivoluzionari di Musatti (Sulla si­tuazione politica dei socialisti veneziani cfr. E. Franzina, Venezia, Bari, Laterza, 1986, pp.311-313).

Su Elia Musatti, cfr. ancora Franzina, Venezia, cit., p.312-15 e DBMOI ad nomen. Il  riformismo di Cesare, di cui nel 1900-1901  non si ha chiaro l'orientamento ( favorisce, il 14 novembre 1900, la nascita del giornale anarchico anconetano "L'Agitazione")  è però un dato certo nel 1904: "La sera del 19-4-1904 presiedette l'Assemblea generale dei gruppi socialisti autonomi riformisti."; dal Casellario Politico Centrale, Sarfatti Cesare.

[4]   Cesare ha dodici anni più della moglie ed è un brillante professionista. Una volta giunto a Milano si rivelerà un ottimo avvocato ma uno sfortunato e mediocre politico, ripetutamente bocciato alle elezioni politiche. Sul piano professionale i processi per oscenità a Umberto Notari (per il romanzo Quelle signore) nel 1906, e a Marinetti, nel 1910  (per Mafarka il futurista), dei quali è difensore, gli daranno notorietà professionale e mondana.

[5] Cfr,. L’ormai notissima bibliografia sull’ambiente dell’emancipazionismo femminista milanese:  A. Buttafuoco, Le Mariuccine. Storia di una istituzione, Milano, Franco Angeli, 1984 ; id., Cronache femminili, temi e luoghi della stampa emancipazionista in Italia, Arezzo, Dipartimento di Studi storico-sociali dell’Università di Siena, 1988 ; id., Filantropia come politica. Esperienze dell’emancipazionismo femminile nel novecento, in G. Pomata, S. Ferrante, a cura di, Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne, Torino, Rosemberg e Sellier, 1987.

[6] Gli articoli sono i  seguenti. “La Patria” : 16 maggio 1903 ( L’Esposizione di Venezia) ; 23 maggio 1903  (L’Esposizione di Venezia, lombardi e piemontesi) ; 9 giugno 1903 (L’Esposizione di Venezia. Lombardi e toscani) ; 29 giugno 1903 (L’Esposizione di Venezia) ; 14 agosto 1903 (L’esposizione di Venezia. Americani, tedeschi, e inglesi).

“La Gazzetta di Venezia” :  Questione di pudore o questione di estetica 14 agosto 1903; 

“La Gazzetta degli Artisti” : L’Esposizione di Venezia, (a puntate) 20 giugno, 4, 1, 25 luglio, 1, 8, 12, 29 agosto, e 13, 30 settembre 1903. 

[7] Né “l’Avanti !” che in quel periodo era a Roma, diretto da Bissolati, le offrirà fino al 1906 la possibilità di occuparsi degli argomenti a lei congeniali. A Bissolati subentrerà poi Ferri, tutt’altro che benevolo nei confronti dei riformisti. Si può ipotizzare che la direzione Ferri, dal 1903 al 1908, impedisca a Margherita, moglie di un esponente riformista, di collaborare. Per questo troviamo i suoi scritti sul “Tempo”, di cui il marito è anche Consigliere di Amministrazione. Il primo articolo che scriverà sul “Tempo” è Il Lido, impressioni estive, 28 agosto 1903. 

[8] Da non trascurare che tanto Luigi Majno che Cesare Sarfatti sono massoni, (cfr. C. Rossi, Personaggi di ieri e di oggi, Firenze, Ceschina, 1960, p.26).

[9]   Il suo primo articolo su “L’Unione” è La questione delle pensioni e l’organizzazione delle operaie alle dipendenze dello Stato, n.1-2-, gennaio 1902, p.7-9.

[10] Cfr. il mio Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 22 – 26.

[11] Cfr. ancora S. Urso, Margherita Sarfatti..., cit., p.23.

[12] Ivi, p. 73.

[13] Ivi, p. 82 – 83.

[14] Charles Péguy apre nel 1898 una libreria socialista,  la librairie Bellais,  che gli serve per raccogliere autori come Rolland, Sorel, i  Tharaud, Jaures, France. I Cahiers nascono invece nel 1900 e finiscono nel 1914 (Péguy muore l'anno dopo nella battaglia della Marna). All'inizio erano solo un bollettino socialista, ma col tempo furono uno strumento monografico per ognuno degli autori citati, e per altri, che vi avevano la massima  libertà di espressione. Già nel 1910 la sua riflessione religiosa è  matura (scrive Le mystere de la charitè de Jeanne D'Arc) e diventa così un poeta cristiano di rilievo. Su di lui cfr., J. Bastaire, Socialismo e cristianesimo in Charles Péguy, in appendice a Péguy, L'anarchia politica, traduzione introduzione e note a cura di A. Prontera, Roma, Edizioni Logos, 1978, p. 140;  Péguy vivant, Atti dell'omonimo convegno, Lecce, Micella, 1978; fra i testi in lingua francese che ci sono stati utili cfr. B. Guyon, Péguy, Paris, Hatier, 1960; J. Bastare, Péguy l'insurgé, Payot, 1975; svariati riferimenti  a Péguy vengono fatti anche in. E. Lipianski, L'identité française. Representations, mythes, idéologies, Paris, 1991 (ad nomen); R. Girardet, Le nationalisme français. Antologie (1871 - 1983), Paris, 1983, (ad nomen). Da segnalare è l'interpretazione che di Péguy fornisce  Leonardo la Puma, (L'opera di Charles Péguy, in "Studi Storici", cit),  definendo  Péguy ultimo testimone del repubblicanesimo mistico - religioso che, tra i diversi filoni del socialismo, sembra essere stata la corrente perdente. Una tradizione che secondo La Puma ha attraversato il 19° secolo da Mazzini a Pierre Leroux attraverso Fourier, S. Simon, Proudhon, Blanc, Jaures, dal quale attinse Péguy. Una tradizione interrotta, così come Gramsci si riallaccia a Mazzini. Sempre di L. La Puma si segnala Il socialismo sconfitto: saggio sul pensiero politico di Pierre Leroux e Giuseppe Mazzini, Milano, Franco Angeli, 1984.

[15]   Cfr. G. Prezzolini, Diario, 1900- 1941, Milano, Rusconi, 1978, p. 131. Péguy  è anche argomento per un articolo di Cardarelli sulla '"Voce" (Charles Péguy, 7 settembre 1911), che sulla rivista suscita polemiche per l'impreparazione di Cardarelli sull'argomento. Ma sui Cahiers e su Péguy compariranno ne La Voce due articoli di Prezzolini, I cahiers del a Quinzaine, 4 agosto 1910; id, Charles Péguy, 15 marzo 1915.

[16] Sempre a Parigi Margherita incontra  Ricciotto Canudo, D'Annunzio, Diego Rivera e Valentine De Saint Point. Cfr. veda  anche lettera  a Prezzolini del 3 giugno 1913: "Sono tornata da pochi giorni da Londra e Parigi...", e del 5 maggio 1913 (da Londra): "...vidi però lo stesso il Péguy, lo rivedrò al mio ritorno a Parigi...". Archivio Giuseppe Prezzolini, Lugano, b. sarfatti Margherita.

[17] S. Urso, Margherita Sarfatti..., cit., pp. 100 – 105.

[18] Lo racconta Leonardo Dudreville (in R. Bossaglia, Il Novecento italiano, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 68 ): “ [...]in quel tempo io frequentava casa Sarfatti che era il circolo  intellettuale più importante della città (... ) in quel tempo il salotto Sarfatti era frequentatissimo. Fra i tanti Tosi Salietti non mancavano mani”.

[19] “Negli anni infuocati alla fine della guerra, i ricevimenti settimanale di Margherita Sarfatti, con l’avvicendarsi di persone personaggi d’ogni provenienza, di celebrità politici canti e di nullità insuccesso transitorio, di artisti pubblici mondani....” N. Podenzani, Il libro di Ada Negri, Ceschina, Firenze, 1969, pag. 138.

[20] Anche la protezione degli scrittori invisi al potere rientra in questa dinamica, come dimostra questo ricordo di Corrado Alvaro (C. Alvaro, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, Milano, Mondadori, 2^, 1951, p. 58): “La signora Sarfatti mi dice: - avrei piacere di rivederla. Io ricevo tutti i venerdì.- E s’avviò di là con il suo passo generale. La signora Sarfatti è temuta e corteggiata. Nelle mie condizioni, osservato, tenuto il sospetto, capisco che mi offre un’ancora di salvezza, forse senza saperlo, perla sua naturale curiosità di incontri, per il suo eclettismo culturale. Basta che mi vedano in casa sua. Non si spiegheranno né il come né il perché.”

[21] “La signora Sarfatti è caduta in disgrazia. Il suo salotto, dove si notavano ministri anche senatori, tutti quelli che volevano farsi notare in qualche modo, si è votato lentamente una settimana a settimana. Una giovane donna andata farle visita del sudore di cedimento, come se facesse della beneficenza con la sola sua presenza, lamentando la scarsa solidarietà della gente... é tale il sospetto che pesa su ognuno che qualcuno attribuisce questa visita non a  curiosità, al pettegolezzo, al compiacimento di una fine mondana, ma addirittura di un incarico poliziesco.” Ibid, p. 123.

[22] Non dimentichiamo che Annarita Buttafuoco, nel proprio lavoro sulle Mariuccine , non negò mai l’importanza che casa Majno, e il salotto n particolare, ebbero nella fondazione dell’Unione femminile. E che il s uo lavoro sia un tentativo di ricstruire le origini di una storia politica delle donne è innegabile.

Contesti

L'Italia negli anni Trenta
Margherita Sarfatti

 

Ringraziamo Simona Urso, storica e tra le maggiori esperte di Margherita Sarfatti (a cui ha dedicato una fondamentale monografia), per la concessione di questo saggio.


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