6. Le dissertazioni accademiche

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Tra erudizione e nuova scienza: i Lincei Riminesi di Giovanni Bianchi (1745)
di Antonio Montanari

6. Le dissertazioni accademiche

Non esiste un elenco completo ed ufficiale delle dissertazioni tenute nei Lincei riminesi. Le notizie che seguono hanno origine da diverse fonti che indicheremo di volta in volta 102. Le adunanze lincee si tenevano di venerdì. L'inaugurazione dell'Accademia avviene il 19 novembre 1745 [Codex, c. 2r].
Dissertazione n. 1, del 3 dicembre 1745, dell'abate Stefano Galli, "sopra l'utilità della lingua greca" 103.
Dissertazione n. 2, del 27 maggio 1746, dell'abate Giuseppe Garampi, Delle Armi gentilizie delle famiglie 104.
Dissertazione n. 3, del giugno 1746, di Planco, De Vescicatorj 105. Il tema trattato esce dall'Accademia e gira fra la gente, per merito del suo allievo Giovanni Paolo Giovenardi 106, appena ne esce un estratto sulle Novelle fiorentine 107. Così Giovenardi scrive a Bianchi da Santarcangelo, dove (come si è visto) insegna Filosofia:

Io non ò mancato di leggere nella Scuola, et anche in questo nostro Caffè tutto quello che intorno a ciò nella suddetta novella si riferisce, e di sostenere alla meglio che ò potuto, quel tanto, che in quella sta scritto intorno a Vescicatori. L'ò letta ancora nel caffè, dove concorre ogni sorte di Persone. Giacché ogni sorta di persone è soggetta a poter essere martoriata da certi Medici, o siano Fanfaroni della Marca collo strano, e crudele rimedio de' Vescicatorj, e perciò quivi ancora ò stimato bene di diffondere que' Lumi, che in quella sono sparsi a comune vantaggio di tutta la Società, acciocche se per avventura non si volessero astenere i Fanfaroni dal farne uso, imparino almeno i Malati o gli Assistenti a rifiutarli.

Dopo questa dissertazione, il matematico modenese Domenico Vandelli scrive a Bianchi definendolo autore di "imposture e maldicenze" e di "moltissime infedeltà", per cui lo considera "nel numero de' letterati superficiali, e fra Montambanchi di mala natura, che mordono ad ogni capo" 108.
Dissertazione n. 4. dell'anno 1746 o 1747, di Giuseppe Zinanni. L'argomento è una "diligente osservazione sopra le uova, e sopra la generazione delle Lumache terrestri, ed altre chiocciole fluviali, o d'acqua dolce" 109.
Segue una pausa nell'attività accademica che riprende soltanto nel 1749: da questo momento sino al 1755, essa viene registrata da Bianchi nel Codex, dove troviamo elencate ventisette dissertazioni 110. Le indichiamo nella loro successione cronologica.
Dissertazione n. 5, del 28 febbraio 1749, di Planco: epistola De monstris ac monstrosis quibusdam, poi pubblicata a Venezia in due edizioni, nello stesso anno 111. Essa è indirizzata a monsignor Giuseppe Pozzi, di Bologna, archiatro pontificio straordinario e presidente dell'Accademia dell'Istituto delle Scienze di quella città 112. Questo studio, al di là degli aspetti più o meno teoricamente validi ancor oggi sotto il profilo scientifico 113, merita considerazione per una questione che sta alla base della problematica trattata da Bianchi, cioè il concetto di Natura così come emerge attraverso il sistema della classificazione scientifica da lui usato. Planco osserva che i mostri si possono dividere in tre specie: quelli che "in Utero Animantium oriuntur ictu vel casu quodam alio"; quelli che derivano "ex conformatione naturali, sive ex plastica quadam vi naturae, sive a natura ipsa ludente" 114; infine quelli che nascono "ex morbo in Animantibus". Bianchi dà per scontato che la perfezione naturale, presupposta dai filosofi scolastici, sia smentita da questi fenomeni.
L'Encyclopédie, alla voce "monstre (zool.)", spiega che trattasi di "animal qui naît avec une conformation contraire à l'ordre de la nature". In questo "ordre de la nature" è fatto coincidere dalla vecchia Filosofia il presupposto metafisico-teologico capace di spiegare tutta la realtà. Nello stesso "ordre de la nature", il nuovo pensiero scientifico identifica invece le regole generali, ammettendo però che da esse si differenzino le eccezioni dimostrate mediante l'osservazione dei fenomeni. Eccezioni e fenomeni sono tanto evidenti, da non poter essere negati, come spiega questo scritto planchiano, il quale documenta quella che abbiamo definito la scelta eretica di Bianchi a favore della fisica di Gassendi. Forse proprio per questo motivo, tale scritto fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane, alle quali non dovettero essere estranei gli ambienti ecclesiastici riminesi che, date le concezioni scientifiche di Bianchi appena considerate, non potevano gradire troppo il suo modus operandi come gestore dei Lincei. La fretta con cui si giungerà, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell'Indice per l'Arte comica, non può spiegarsi soltanto in relazione al tema controverso in essa trattato, un tema allora importante, tanto da essere al centro di durissime polemiche 115, quindi di stretta attualità, però in definitiva marginale rispetto alle più fondamentali questioni di Filosofia e di interpretazioni teologiche e metafisiche della Natura. Un tema, soprattutto, non sviluppato così duramente da Bianchi sotto il profilo dottrinario, come avrebbe invece dovuto richiedere, quale giustificazione, la stessa condanna romana, per apparire plausibile.
Dissertazione n. 6, del 7 marzo 1749, di Giuseppe Antonio Battarra, De Lithophytorum, ac praesertim de corallorum generatione.
Dissertazione n. 7, del 21 marzo 1749, di Planco, sopra i rimedi per le coliche nefritiche 116.
Dissertazioni n. 8 e n. 9, rispettivamente dell'11 e del 25 aprile 1749, sopra la Beata Chiara da Rimini, entrambe inviate da Giuseppe Garampi dimorante dalla fine del 1746 a Roma 117. La prima dissertazione tratta della Comunione sotto le due specie, ricevuta dalla Beata Chiara l'11 aprile 1749. La seconda parla dei suoi digiuni, toccando un tema che divideva l'ambito ecclesiastico, circa il rigorismo con cui si doveva o meno affrontare la quaresima 118. E che non risultò gradito all'uditorio "propter materiae, et stili ariditatem", al punto che Bianchi concluse la radunanza leggendo versi di un "festivus" autore napoletano, come troviamo scritto nel Codex [c. 12r].
Dissertazione n. 10, del 15 marzo 1750, di Giovanni Paolo Giovenardi 119, De Rubicone, a proposito della "iscrizione da lui fatta per un cippo sulle sponde del fiume Uso, preteso Rubicone degli antichi e dalla quale prese le mosse una celebre controversia in cui il Bianchi ebbe parte preponderante" 120, come dimostra la dissertazione seguente.
Dissertazione n. 11, del 21 marzo 1750, di Planco, lettera ad un amico fiorentino, De Rubicone 121.
Dissertazione n. 12, del 15 luglio 1750, di Daniele Colonna, De Hydrope Ascite.
Dissertazione n. 13, del 12 marzo 1751, di Giacomo Fornari, An Philosophia et reliquae scientiae et artes versibus pertractari possint, sintque veri poetas qui hasce scientias versibus pertractant an puri versificatores.
Dissertazione n. 14 del 27 marzo 1751, di Giuliano Genghini, De Apollo Pythio.
Dissertazione n. 15 del 2 aprile 1751, di Planco, lettera "circa varias Inscriptiones antiquas Arimini" 122.
Dissertazione n. 16, del 30 aprile 1751, lettura dell'epistola inviata da Lodovico Coltellini sul Dittico queriniano, e di sette lettere di Roberto Malatesti (1479).
Dissertazione n. 17, del 30 aprile 1751, di Gaspare Adeodato Zamponi, De Lumbricis Corporis Humani 123, in cui si sostiene, erroneamente, che i vermi del corpo umano si riproducono per parto e non con uova 124. Monsignor Giuseppe Pozzi in una lettera a Bianchi definisce "ciance" le affermazioni di Zamponi 125. Riserve metodologiche sono avanzate da Giuseppe Zinanni: l'osservazione di Zamponi è stata fatta soltanto una volta, "quando per stabilire un'osservazione vi si richiede di verificarla più decine di volte", per cui augura all'autore della dissertazione "che s'incontri in altri vermi che stiano per partorire" (24 giugno 1752, FGLB, ad vocem).
Nel prologo alla dissertazione di Zamponi e nel relativo verbale del Codex, Bianchi denuncia la negligenza degli Accademici i quali intervengono raramente alle radunanze. Nel prologo i toni sono molto forti: gli Accademici, sostiene, s'affaticano "solamente per qualche poco per un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche femminuccia" 126.
Dissertazione n. 18: il 7 maggio 1751, il "tiro" Giovanni Battista Brunelli parla brillantemente di un argomento di ostetricia, relativo ai parti difficili 127.
Dissertazione n. 19. Senza data 128, è la lettura di un'epistola di Leonida Malatesti del 1546.
Dissertazione n. 20, del 14 maggio 1751, di Giovanni Antonio Battarra, De origine fontium. "In fine lepide dixit se hanc Dissertationem recitasse, ne videretur negligentiae notatus a Planco, ut suboscure notati sunt alii Academici Ariminenses, qui modo muti facti videntur", commenta Bianchi nel Codex [c. 17r].
Dissertazione n. 21, del 28 maggio 1751: Planco dà lettura dell'esame anatomico riguardante un bambino di nove anni, il contino Giambattista Pilastri di Cesena, morto "ex Apostemate in lobo destro Cerebelli" 129. Quell'esame è pubblicato nello stesso anno nella Raccolta d'opuscoli del camaldolese padre Angelo Calogerà, a Venezia [pp. 169-200], con il titolo Storia medica d'una postema nel loro destro del cerebello, aprendo lunghe e "feroci polemiche" 130. Un'anticipazione di questa dissertazione , è fornita da Bianchi, pochi mesi prima, in appendice alla seconda edizione del De Monstris 131.
Dissertazione n. 22, del 11 giugno 1751: Pasquale Amati "Causidicus seu Leguleius" tiene una dissertazione "de origine Litterarum", la quale "approbata non fuit a Planco restitutore, et ab omni dotto, qui huic sessione interfuit" 132. Nella successiva riunione [18 giugno 1751], Bianchi "aliquid dixit circa deliramenta Amati in praeterita sessione" 133. Quest'annotazione, nella sua brevità, sottintende parecchie cose sull'atteggiamento di Planco come reggitore dei Lincei e come "uomo dotto".
Dissertazioni n. 23 e n. 24: il 18 giugno 1751, Bianchi tratta di un altro esame anatomico, De structura uteri in gravidis, e legge una lettera di Lodovico Coltellini sulla lingua etrusca, a cui premette una prefazione 134 "de incertitudine studiorum Linguae Etruscae", come leggiamo nel Codex [c. 18v.].
Dissertazione n. 25: l'11 febbraio 1752, "ultimo venerdì di carnovale", l'Accademia tiene un'adunanza straordinaria e "solenne", con musica ed esibizione della "venusta" cantante ed attrice Antonia Cavallucci in Celestini 135: "deinde Plancus maiusculam dissertationem habuit de praestantia Artis comicae, seu comoediae" 136. Il caso che nasce in seguito a questa radunanza di "carnovale", coinvolge in apparenza soltanto la persona di Bianchi, ma finisce per avere conseguenze pure per la sua Accademia. Esso culmina nella già ricordata condanna all'Indice, e si articola in due distinti momenti, che meritano di essere analizzati ai fini della storia dei Lincei riminesi. Inizialmente Planco viene attaccato soltanto per l'ospitalità concessa in casa propria ad una cantante che, oltretutto, si esibisce nel corso di una riunione lincea; poi egli è denunciato al Sant'Uffizio per il contenuto della sua dissertazione. I due momenti si tengono strettamente tra loro: entrambi sembrano aver origine in un atteggiamento pregiudiziale nei confronti dell'attività e dei comportamenti scientifici di Bianchi, e che mira a rendergli sempre più difficile l'attività accademica.
E' già stato ricordato che "quell'esibizione incontrò, nel concerto di polemiche a non finire, anche la disapprovazione di accademici" 137 risentiti e scandalizzati come Lodovico Coltellini, il quale approva la diceria in sé ("Lodo, e lodai la sua lezione sull'arte comica"), ma ritiene inopportuno "lodare una bagasciuola, una puttanella dichiarata, che tali sono generalmente queste contrabbandiere, che millantano il nome di virtuose" 138. Non era soltanto Coltellini, a pensarla così a proposito delle attrici. Il celebre padre Daniele Concina, "violento e torrentizio teologo domenicano" 139, le definisce "putiduae meretriculae", leziose puttanelle, in un volume apparso nello stesso 1752, nel quale in tutta fretta, mentre già i torchi erano al lavoro, aggiunge un paragrafo dedicato proprio all'Arte comica del nostro medico, accusato di scrivere da pazzo 140. Il teatino padre Paolo Paciaudi definisce la Cavallucci un'"infame sgualdrina" e "cortigiana svergognata", d'accordo con Giovanni Lami che la definisce semplicemente, alla francese, una "figlia di gioia" 141. Allineati con tutti costoro dovettero essere anche gli ecclesiastici curiali cittadini, se il caso genera quelle che un corrispondente romano di Planco, Giuseppe Giovanardi Bufferli 142, chiama "illustrissime, e Reverendissime insolenze, che mal'a proposito si sono fatte al degnissimo Dottor Bianchi": della "sua stravaganza in proposito della Signora Antonia Cavallucci si è qui parlato quanto forse non sarassi parlato in Rimino", per merito soprattutto del vescovo della città, Alessandro Guiccioli 143. I difficili rapporti fra Bianchi e la Chiesa riminese non sono una novità: i primi contrasti risalgono addirittura al 1726, dopo che il vescovo Davìa rinuncia alla carica 144. E di certo non migliorano quando Planco si pone in diretta concorrenza con le istituzioni culturali ecclesiastiche che, come lui stesso ricorda, entrano in crisi dopo la contemporanea partenza da Rimini di Davìa e di Leprotti 145. Questa situazione di contrasto dovette durare a lungo, sino alla morte di Planco, se il vescovo di Rimini nel 1777, il forlivese Francesco Castellini, non voleva che fosse stampato l'elogio funebre di Bianchi, scritto da Giovanni Paolo Giovenardi 146.
Giovanardi Bufferli chiama "lodevole" il contegno assunto da Bianchi "nel rimettere a Bologna 147 con tanta sollecitudine la medesima Signora Antonia", e spiega che attende "con desiderio" la dissertazione sull'Arte comica, "tanto più che un certo Frate Scolopio 148 stamperà tra non molto certo libro, con cui intraprende tra l'altre cose a sostenere che questi Comici furono mai sempre infami". Giovanardi Bufferli aggiunge il 18 marzo:

[...] io sono impaziente di leggere la di lei dotta Dissertazione, al sentimento della quale sarà forse presso che uniforme quello d'un'opera, che ora stassi scrivendo da questo Padre Bianchi famoso Zoccolante Lucchese 149, ed à V. S. Ill.ma molto ben cognito in proposito dell'antico, e moderno teatro 150.

Appena ricevuta a Roma una copia dell'Arte comica, Giovanardi Bufferli la consegna in lettura "in autorevoli gentilissime mani", e ne chiede altri esemplari "per sodisfare all'erudita curiosità" di alcuni amici 151. Da Bologna monsignor Giuseppe Pozzi 152 ironizza, privilegiando l'aspetto dei rapporti personali di Bianchi con la Cavallucci, rispetto a quello relativo al contenuto del saggio, che ai suoi occhi passa in secondo piano:

Ho letto l'orazion vostra, e ad altri Amici l'ho comunicata. Tutti concludono che facendola eravate innamorato, mà parimenti tutti conchiudono, che siete un valent'uomo, e benche l'Amore nella vostra, e nella mia età non possa far che un nido assai disaggiato, pure merita compatimento, quando ne escono pulcini sì ben covati ... 153.

Bianchi dovette smentire la teoria dell'innamoramento 154, se Pozzi gli rispose:

Che voi foste innamorato, o nò della Cavallucci non avete à rendermene raggione, e qual sia stato l'impegno vostro non cerco, non intendo che vi confessiate ora de' peccati vostri. Unicamente, io alla buona vi dico che avete gittato il tempo, e che è meglio assai né impegnarsi né per maschij né per femmine 155.

Anche dopo la scomparsa di Bianchi, il suo preteso innamoramento continuò a suscitare polemiche se non scandalo, come dimostra la breve biografia di Planco apparsa ne Il Giornale di Medicina 156 in cui si legge:

Amò stranamente per pochi mesi, mentr'era sessagenario, una Comica Romana, che avea nome Antonia Cavallucci, alla quale compose e fece stampare alcune sue Poesie. Per essa recitò e stampò il suo Discorso sull'Arte Comica, il quale ha poi meritata la indignazione della Sacra Congregazione dell'Indice.

La difesa che fu tentata da mano anonima, sottolineava che "l'Amore in Medicina viene considerato trà le Cagioni Procatartiche della Sanità, se moderato ed onesto" 157. Nel caso specifico, per Bianchi, quell'avventura "anzi che avvilirgli lo spirito, contribuì a suscitargli vieppiù pellegrini soliti frutti della dotta Sua mente", cioè lo portò alla stesura dell'Arte comica.
Nella sua dissertazione, Planco s'avventura in un terreno particolarmente pericoloso. Non gli interessa infatti tracciare soltanto un profilo storico dell'arte teatrale, sottolineandone l'utilità, ma vuole con elegante sottigliezza (diremmo, più giuridica che letteraria) rimettere in discussione il trattamento riservato dalla Chiesa agli "istrioni", privati ancora allora in Francia dalle leggi canoniche "fino de' Sagramenti, e dell'Ecclesiastica Sepoltura". Bianchi precisa che le leggi civili non si riferiscono agli attori "in genere", ma a quelli che si esibiscono in "alcuni crudeli, e osceni spettacoli, e specialmente de' Gladiatori, e de' Mimi, o Pantomimi" (che ricorrono ad "oscenità" nei loro "sozzi atteggiamenti"), per cui meritatamente sono puniti essi, e sono "scomunicati" quanti vanno a vederli. Tutt'altra cosa, aggiunge, sono "quegl'Istrioni, o Commedianti" i quali rappresentano "Tragedie, o Commedie oneste più atte a correggere piacevolmente il vizio, che ad eccitare spirito di crudeltà, o di libidine nelle persone". A sostegno delle proprie idee, Bianchi cita san Tommaso, il quale ritiene che "l'Officio dell'Arte degli istrioni [...] è ordinato per sollevar l'animo degli uomini, e che coloro che l'esercitano dentro de' debiti modi, non sono mai in istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede per le loro fatiche". Planco infine si chiede: se la Chiesa permette la lettura delle commedie di Plauto e Terenzio 158, allora non si dovrebbe permettere anche la loro rappresentazione? Perché debbono essere considerati "infami" quei comici che "le rappresentano venalmente", mentre "diventano onesti quei che le rappresentano gratis"?
Come risulta da questi passi, lo scandalo che avvolge la radunanza accademica "di carnovale", ha le sue radici, più che nell'esibizione della bella cantante romana, nelle ardite opinioni del Restitutore dei Lincei: con severo puntiglio padre Concina le esamina minuziosamente, e con durezza le censura nel suo De spectaculis 159. Planco considererà padre Concina il vero ed unico responsabile della sua condanna 160. Sostenendo retoricamente la nobiltà dell'arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo sottinteso il bisogno di libertà per la cultura in genere 161, e non soltanto per commedianti od attricette in particolare. A Planco non interessa proporre una riforma del teatro comico come invece, molto prima di lui, aveva fatto Muratori 162, preoccupato per ragioni di ordine morale del fatto che la scena fosse finita "in mano a gente ignorante" che poneva "tutta la sua cura in far ridere", ricorrendo ad un genere letterario consistente "non poca parte [...] in atti buffoneschi e in sconci intrecci, anzi viluppi di azioni ridicole, in cui non troviamo un briciolo di quel verisimile che è tanto necessario alla favola". Bianchi rovescia l'impostazione muratoriana, di cui ignora le finalità: egli non vuole un teatro nuovo, ma semplicemente la licenza di rappresentare quello antico, del quale non mette in discussione nulla, consapevole della grandezza letteraria di quegli autori, come Plauto e Terenzio, che lui stesso, come si è visto, ricorda nel passo riportato.
I fulmini dell'Indice si abbattono sul capo di Bianchi 163, con il decreto 164 del 4 luglio 1752. Possiamo ricostruire tutti i particolari della vicenda, attraverso le lettere 165 che nel 1752 Giuseppe Garampi e Planco si scambiarono, ed altre epistole di corrispondenti romani di Bianchi 166, l'avvocato Gianfelice Garatoni, monsignor Marcantonio Laurenti e l'abate Costantino Ruggieri. L'Arte comica è stampata in marzo, ed immediatamente a Roma 167 se ne parla male. Il 26 aprile Garampi, subito dopo averla ricevuta, confida a Planco di prevedere che l'opera "potrà incontrare presso varie persone qualche eccezione". I punti controversi sono due, gli spiega il 6 maggio: "quello ch'ella dice della onoratezza dell'arte comica presso i Romani; giacché abbiamo gli antichi Giuristi, che l'annoverano fra' le infami, e non sò se da un passo di Livio pure si raccolga lo stesso. Ma io non ho avuto il tempo di riscontrarlo". Ed "il vedere, ch'ella contrapponga all'osservanza che praticano i Francesi delle Canoniche Leggi, quanto si fà dalla Chiesa protestante d'Inghilterra". Bianchi nel Discorso [pp. 18-19] sostiene che

l'invitta e gloriosa Nazion Britannica non ha avuto difficoltà di fare seppellire solennemente in Londra nella cattedrale di Westimster, Chiesa, dove si coronano, e dove si sepelliscono i loro Re, la valorosa e ricchissima non men che bella loro Attrice Madamigella d'Oldfield, rendendole in morte per poco i medesimi onori, che poc'anzi renduti aveano all'immortale loro Filosofo Newton 168.

Il 20 maggio l'abate Ruggieri avvisa Planco:

mi dispiace che qui in Roma i vostri nemici ne [h]anno fatto un chiasso straordinario per quel paragone che voi fate fra il rigorismo, come voi dite, della Chiesa di Francia, colla generosità di quella d'Inghilterra nel dar sepoltura magnifica a quella loro famosa Attrice. Veramente la cosa è un poco avanzata, né dovevate voi far questo paragone fra la Chiesa Anglicana Eretica e la Gallicana Cattolica. [...] Insomma [h]anno fatto un baccano grandissimo per tutta Roma in tutti i ceti e ranghi di persone; e vi è stato chi ha detto di denunciarvi al S. Uffizio. Queste cose mi sono dispiaciute in etterno, ed ho fatto, e fò quanto posso per difendervi con dire che questa [è] una cosa fatta in Carnovale, onde non merita tanta dote. Voi sapete che jo vi sono buon e leale amico, e che ho stima infinita de' fatti vostri; e perciò mi sono indotto a scrivervi tutto questo per vostra Regola.

Il 3 giugno lo stesso Ruggieri suggerisce a Bianchi:

Quanto al vostro Discorso dell'Arte Comica, credo che farete benissimo, ristampandolo, di togliere quel paragone de' Franzesi, e degl'Inglesi, che non fà buon suono.

L'8 luglio Garampi comunica:

Con mio sommo dispiacere seppi ieri l'altro, che nell'ultima Congregazione dell'Indice, essendo stata riferita la di lei Orazione in lode dell'arte comica, ne fosse da' Cardinali e Consultori variamente parlato, e che finalmente s'indussero a proibirla. Questa proibizione, benché nulla offenda l'erudizione e la sostanza dell'argomento, ma piuttosto paja cagionata da una cautela di Ecclesiastica economia, nulladimeno, se ne avessi avuto qualche sentore, si poteva facilmente riparare con esibirsi di meglio dichiarare que' sentimenti, che fossero stati censurati, ò di farne una nuova edizione più corretta. Ma la cosa è stata improvvisa, né io l'ho penetrata, se non dopo fatta già la Congregazione.

Bianchi risponde il 13 luglio:

Anch'io sentii con molto mio dispiacere nell'ordinario scorso che il Signor Abate Garatoni m'accennasse nel fine d'una sua Lettera 169 come il Signor Abate Ruggieri gli veniva allora di dire che nel giorno antecedente era stato proibito dalla S. Congregazione dell'Indice il mio Discorso in lode dell'Arte Comica, il che mi sento confirmato dalla sua gentilissima degli 8 del corrente, che ricevei ieri. Veramente ancor io sarei stato prontissimo di far una Dichiarazione, o di far una nuova Edizione dell'Operetta togliendo via que' sentimenti, che non piacessero, e di quest'ultimo me n'ero espresso anche col signor Abate Ruggieri; ma ad un Giudizio fatto così alla sordina, cioè indicta caussa, o inaudita parte come dicono; non si può por riparo. Se Ella credesse bene mandar un Memoriale a N. S., o alla medesima S. Congregazione dell'Indice a mio nome, dicendo che io son pronto a far una Dichiarazione de' sentimenti censurati, o di fare una nuova edizione costì corretta, per impedire che non si pubblichi ora codesto Decreto di Proibizione, o almeno che si moderi con il donec corrigatur mi farebbe un molto favore.

Il 15 luglio Garatoni comunica a Bianchi:

Il perché sia stato proibito il vostro discorso sopra l'arte comica si è fondato principalmente, per essere stato scritto in italiana favella, dicendosi che in tal guisa s'insinuano negli animi di taluni più facilmente alcune massime le quali pareano un po' troppo avvanzate. Il Padre Abate Monsecrati Lucchese dell'Ordine de' Scopettini, il quale non volea riferirlo, ma fù costretto a farlo [,] nella Congregazione dell'Indice trattò da Galantuomo, perché mostrò, che non meritava tanta severità, ma non giovò per il riflesso dettovi di sopra. Questo è quello, che io vi posso dire. Se desiderate maggiori notizie, forse ve le darà l'abate Ruggieri, quando lo ricerchiate 170.


Il 25 luglio Garampi precisa:

Il Padre Reverendissimo Richini 171, che si protesta di essere stato necessitato a fare riferire in Congregazione la di lei Orazione, per replicate istanze di Prelati e persone, che dic'Egli di distinzione, crede di non poterle suggerire nelle presenti circostanze migliore partito, che quello di scrivere una lettera di sommissione a N. S., assoggettandosi e riconoscendo la giustizia della censura, e supplicandolo a non volere almeno, che detta proibizione sia pubblicata nel Decreto, ò che non vi comparisca il di lei nome; e ciò a fine di non soggiacere a qualche impertinenza de' suoi malevoli.
Veramente questa proibizione non dovea farsi nella passata Congregazione, e giacché per l'ordinario si fa riferire il libro censurato in due o tre Congregazioni. Ma sento, che alla relazione allora fatta insorgessero varj Cardinali, acciò il libro fosse proibito, avendone fatta gran specie quel contrapposto della Chiesa Gallicana e Inglese, e quella lunga apostrofe alla Comediante 172. Ma de hoc satis, giacché io di una simil cosa carnevalesca, non pare che se ne dovesse fare tanto caso.

Il 3 agosto parte da Rimini la risposta di Bianchi, improntata a scetticismo:

[...] io non so, se con ciò si ottenesse niente, perché da quello che ella mi scrive vedo che ci è stato molto impegno contro del mio Discorso, pel quale senza sentir ragioni si volle ad ogni costo proscritto. Chi ha quest'impegno per sostentarlo inquieterebbe N. S. e me, onde è meglio a dargliela vinta per non dar occasione d'inquietarsi maggiormente. Se poi qualche mio malevolo scriverà una qualche impertinenza, la trascurerò, come tant'altre. Se bene che con me s'è proceduto con un sommo rigore per una cosa finalmente che è stata stampata in una Città Cattolica con tutte le Licenze de' Superiori, e che viene generalmente lodata da tutti i Letterati, lasciandosi poi correre liberamente tante impertinenze stampate alla macchia contro di me, e il più con nomi finti, cose in realtà non sono che tanti Libelli famosi 173, come sono appunto quelle cose di quel Prete che sta a Sinigaglia, che s'intitola Omireno Bonodei, quelle di quell'altro Prete di Modena, che s'intitola Ciriaco Sincero, quelle dei quei due Preti di Siena, Valentini, e Carli, e finalmente quelle di questo, che s'intitola Gerunzio Maladucci, e d'altri. Io veramente, come scrissi al Signor Abate Ruggieri avea intenzione di far ristampare quel mio discorso togliendoli via l'esempio di quella Oldfield, e mettendoci in suo luogo quello d'Isabella Andreini detta la Comica gelosa, che fu onorata in Francia, come grande Dama, e che fu sepolta in Lione solennemente con un Epitaffio in bronzo; benché io in quel luogo non faccia alcuna comparazione tra Chiesa, e Chiesa, ma solamente tra Nazione, e Nazione, e poco dopo io soggiunga, ma la nostra Santa Chiesa Cattolica etc., con ché vengo a dire che non sono cattolici, ma eretici gl'Inglesi. Benché non tutte le cose che fanno, e che dicono gli Eretici siano Eresie, come si vede in questa cosa, dove convengono gl'Inglesi con noi, perché anche in Roma si seppelliscono in Chiesa i Comici. Così io volea tor via a quel mio Discorso quell'Apostrofe a quella Comica per miei privati riguardi, ma se io ce l'avessi lasciata non vedo, come quell'Apostrofe avesse meritata proibizione alcuna.
Ché io riconosco maggiormente lo spirito d'impegno, che costì s'ha avuto codesta proibizione, il quale spirito d'impegno peravventura sarà stato fomentato di qua da chi ora non può più per sé stesso fomentarlo, essendo passato tra i più, forse mandatoci prima del tempo da chi egli si serviva per consiglieri nelle sue ingiustizie, e violenze. Io veramente ancora dopo l'ultimo dì di Carnovale non voleva parlar più di queste cose, ma sono stato costretto a parlarne, giacché la persecuzione dura ancora, né la morte l'ha potuta far cessare.

Nella parte conclusiva della lettera, quando parla del proprio accusatore "passato tra i più", Bianchi sembra chiamare in causa un personaggio locale autorevole, come lo stesso vescovo di Rimini Alessandro Guiccioli, scomparso da poco, l'8 maggio di quello stesso anno 174. D'altro canto, come si è visto, se Garampi accenna vagamente a "replicate istanze di Prelati e persone, [...] di distinzione", Giovanardi Bufferli parla in modo esplicito di "illustrissime, e Reverendissime insolenze" e del ruolo avuto dal medesimo vescovo Guiccioli nel diffonderle in Roma contro Bianchi, circa la "sua stravaganza in proposito della Signora Antonia Cavallucci". Il 12 agosto c'è una puntualizzazione di Garampi, a conferma che la proibizione del libro è venuta "unicamente per certa ammirazione, che ha data alle pie orecchie, la semplice lettura di alcune poche espressioni o periodi. Almeno così mi pare di avere ricavato da varj soggetti della Congregazione". Il 17 agosto Planco spedisce a Garampi la supplica da "presentare, o far presentare" al papa "da persona a lui grata per vedere, se si può ottenere la grazia" 175, aggiungendo:

Io mi credeva veramente che ci fosse stato dell'impegno per far quella Proibizione; giacché il Signor Avvocato Garatoni m'avea scritto che benché un Padre Abate Scoppettino, cui era stato commesso d'esaminare l'Operetta ne avesse data buona Relazione, tanto l'aveano voluta proibire; così ella m'avea scritto che era stata proibita, come improvvisamente, e senza riferirla più volte, come è solito a farsi quando si tratta di fare una proibizione. Se solamente per la Lettura d'alcune poche espressioni, o periodi l'hanno proibita, se io fossi stato avvisato con un Carticino, o due che si fossero fatti si sarebbe potuto rimediare a tutto.

Il 31 agosto Planco, come risulta dall'elenco della sua corrispondenza 176, scrive direttamente a papa Benedetto XIV, con il quale poteva vantare un'antica amicizia 177. Il 10 settembre Bianchi conferma a Garampi che la sua lettera è stata presentata 178 al papa "il quale mi ha fatto rispondere, che egli vedrà di fare quanto io disidero almeno per la seconda parte". Stando alla cit. lettera garampiana del 25 luglio, questa "seconda parte" dovrebbe riguardare la supplica a pubblicare la condanna senza il nome dell'autore dell'opera messa all'Indice. Il papa, aggiunge Bianchi, ha poi promesso "che con quest'altro spaccio avrà la degnazione di rispondermi". Il pontefice non scrive a Bianchi, ma gli fa avere notizie tramite monsignor Laurenti. Dalle lettere che Laurenti indirizza a Planco, possiamo ricavare altri particolari sull'intera vicenda. Il 6 settembre gli scrive:

La hò subito servita coll'umiliare alle mani di N. S. la lettera di V. S. Ill.ma e da lui medesimo hò avuta commissione di scriverLe, che sà essere vero il decreto già emanato dalla Congregazione dell'Indice, e però non può impedire, che la cosa, che è già di fatto, non lo sia, mà che dirà, che quando questo Decreto dovrà propallarsi, si taccia in esso il nome di lei, come autore e lo che, dice il Papa, è almeno desiderato, e chiesto da esso Lei: mi ha poi soggiunto, che giovedì prossimo parlarà col Commissario e Segretario del S. Offizio, e che indi responderà alla suddetta Sua 179; e per me prendo la lusinga che N. S. farà il fattibile per indennizzare la di Lei estimazione, e decoro, come cordialmente Le auguro.

Il 16 settembre Laurenti aggiunge:

Circa l'[...] affare non ne hò più sentito parlare, e perché sò che il Papa quando hà detto di fare una cosa, non si scorda di farla, perciò mi lusingo, che già abbia parlato, e forse forse, che abbiale scritto in risposta alla sua da me già presentatale: ma di questi passi a me non è lecito per ora di interrogarlo se pure li hà fatti, o nò: bisogna trovare le opportunità di parlarne, le quali talvolta mi riescono facili, e pronte, e tall'altra nò. In ogni modo Le predìco che non andarà male.

Il 21 ottobre Laurenti spiega:

Questa mattina ho potuto parlare a Monsignor Guglielmi Assessore del S. Offizio; e lo ho interrogato se sà cosa divenisse nella Congregazione di certa dissertazione accademica detta e stampata dal dott. Bianchi di Forlì in lode de Comici, e Ballarini; egli subito mi ha risposto che ben si ricorda, che fu questa proscritta, e che passò al Segretario dell'Indice, il quale poi la fà stampare nel libro de libri proibiti, cioè aggiungere ai già proibiti: ma mi assicurò che tali piccole cose non si proibiscono pubblicamente e con strepito con cedole, che si attaccano per la Città, e come dicesi ad Valuas: e mi soggiunse che ne parlerebbe col Segretario dell'Indice Padre Recchini, che presentemente è fuori di Roma, accioche accennasse l'operetta, ma non l'autore: ed essendo questo Padre mio favorevole, lo pregarò similmente anch'io, subito che tornerà in Città: tutto ciò potrebbe avere già fatto il Papa medesimo e allora me ne chiarirò [...].

Il 25 novembre Laurenti comunica l'esito della vicenda:

Nostro Signore memore della lettera scrittagli tempo fa da V. S. Ill.ma avant'ieri mi disse, che aveva avuta opportunità di vedere, e parlare al Padre Segretario dell'Indice, e inteso da questo che di fatto era emanato il decreto proibitivo della consaputa sua operetta, e che il già registrato non potevasi avere per non registrato, e che in seguito bisognava ò presto ò tardi stampare in un foglio, o in un libro ed allora il Papa gli ordinò che se pure era proscritta la dissertazione, non se le aggiungesse il nome dell'autore, cioè di Lei, e così certamente avverrà: e di questo, mi soggiunse il Papa, ne darete contezza al Signor Bianchi, che servirà per mia risposta alla di lui lettera con cui appunto mi pregava che almeno non fosse enunciato pubblicamente il suo nome: nell'eseguire questo sovrano comando, mi dò l'onore di riverirla [...].

Il 29 novembre Garampi conferma che il papa ha concesso a Bianchi di "tacere" il di lui "nome nella pubblicazione, che si farà in breve del consaputo decreto della Congregazione dell'Indice". Infatti, tale decreto ed il successivo Index recano soltanto il titolo dello scritto planchiano, Discorso (in lode dell'Arte Comica), e non le generalità dell'autore. Ma Bianchi, come lui stesso spiega a Garampi il 3 dicembre, vorrebbe che la sua "Operetta" non "fosse esposta in quegl'Indici, che s'affiggono". Garampi il 16 dicembre 180 gli risponde:

Il Padre Secretario dell'Indice [...] mi dice di non aver arbitrio alcuno per poterla servire in quello ch'Ella gli richiede, senza un nuovo beneplacito del Papa. Non sarebbe male ch'Ella scrivesse a N. S. una lettera di ringraziamento per l'ordine già dato, affinché si taccia il di lei nome, e quando ella pensasse di chiedergli nello stesso tempo questa nuova grazia, ella faccia quel che stimerà più opportuno.

Il 21 dicembre Bianchi confida a Garampi che non gli "dispiace il pensiero" di scrivere "a dirittura" al papa "ringraziandolo, e pregandolo dell'altro favore", ma di non avere, quel giorno, tempo di comporre la lettera. Di questa lettera non si parla più nel loro carteggio: è facile immaginare che Planco non l'abbia mai voluta scrivere. Forse per superbia ed arroganza, secondo l'immagine convenzionale che di lui viene accreditata. Ma probabilmente per non subire nuove umiliazioni da un ambiente che gli si era rivelato ostile aldilà di ogni limite ragionevole, e nel quale aveva potuto sperimentare gli effetti concreti delle invidie altrui e delle censure verso le proprie idee.
Tra le carte planchiane 181 abbiamo rinvenuto un sonetto contro papa Benedetto XIV. Non sappiamo nulla sul suo autore, né se esso abbia relazione con la condanna subita, ma soltanto che la grafia è sicuramente di Bianchi:

Ma cazzo! Santo Padre ogni ordinario
ci vengono nuovi guai, nuovi pericoli,
e voi posate quieto il tafanario
grattandovi i santissimi testicoli.

Ci vuol altro che aggiungere al Bollario
Chiose, Brevi, Paragrafi ed Articoli
e studiar la riforma del Breviario
per fare i Santi Grandi uguali a Piccoli.

Tutto ciò Padre mio non vale un pavolo
e forse voi le chiamereste Buggere
in altri tempi, e vi dareste al Diavolo.

Or mentre ce ne andiamo in precipizio
Voi coglionando ci lasciate struggere
per Dio, che ci venite in quel servizio.

Quanto si è finora esposto, dovrebbe bastare per porre in un ambito più dignitoso culturalmente, e storicamente importante, l'elegante saggio planchiano rispetto all'attenzione, tra divertita e scandalizzata, che esso ha quasi sempre ricevuto. Il saggio ha limiti evidenti, determinabili in quella struttura che ne costituisce però nel contempo la cornice di originalità: Bianchi parte infatti da un'esposizione, convenzionale ed erudita, per approdare ad un risultato del tutto inatteso rispetto alle premesse. In questa conclusione c'è una forza innovativa in cui possiamo forse rintracciare echi delle esperienze giovanili compiute nella Bologna dove, a partire dal 1718, aveva operato Pier Jacopo Martello, che lo stesso Bianchi ricorda tra i suoi amici 182.
La dissertazione procura a Bianchi un messaggio ben più significativo della stessa condanna, recante la firma di Voltaire 183: "Vous avez prononcé, Monsieur, l'eloge de l'art dramatique, et je suis tenté de prononcer le votre". Comincia così la lunga lettera di Voltaire, che contiene una difesa del teatro e della sua funzione 184. Come essa conferma, il tema del teatro era allora al centro di un'altra disputa, condotta dai Giansenisti contro la pedagogia dei Gesuiti, i quali usavano nei loro collegi anche il palcoscenico per educare gli allievi 185.
La condanna non ha conseguenze 186 nella successiva carriera pubblica di Bianchi, se nel 1755 egli è nominato Consultore dell'Inquisizione e Medico del Sant'Uffizio 187, prima di diventare nel 1769 "Archiatro Segreto Onorario", per volere di papa Ganganelli, Clemente XIV, che era stato suo allievo 188.
Per completare la documentazione relativa all'Arte comica ed alla Cavallucci, riproduciamo l'Ode anacreontica composta in suo onore dallo stesso Planco 189:

Ode anacreontica
in lode della Signora Antonia Cavallucci,
detta Celestini, Romana,
Attrice, e virtuosa di Musica,
in occasione, ch'Ella canta graziosissime Ariette nel Pubblico Teatro, e per varie Accademie della Città di Rimino,
offerta al merito singolare dal Nobile Sig. Dottore Giovanni Bianchi Medico Primario della medesima città.
Pesaro MDCCLII nella Stamperia Gavelliana


Fiamme dell'anime,
Gentil Donzella,
Piucché altra amabile,
Se non più bella,
Per poco ascoltami,
Che in dolci modi
Vuo dir tue lodi.

Ascolta un fervido
Inno d'onore
Figlio di candido
Sincero core,
Che non sa fingere,
Che si vergogna
Di vil menzogna.

Di tue bellissime
Nere pupille
Ond'escon fervide
Chiare faville,
O quanto il tremulo
Lume vivace
M'alletta e piace.

Armata Pallade,
E tu, che sei
Piacer degli uomini,
E degli Dei,
Ridente Venere,
Aveste mai
Sì vaghi rai?

Del volto i morbidi
Tersi candori,
Che vezzi spirano,
Spirano amori,
O quanto, amabile
Donzella, ammiro
Qualor ti miro.

Ma gli occhi, il tremulo
Lume vivace,
Che tanto allettami,
Che tanto piace,
Il volto morbido
Non m'incatena,
Non mi dà pena.

Fiamma dell'anime,
Gentile Donzella,
Più raro amabile,
Pregio, che bella
Più ch'altra renditi,
Sol m'incatena,
Sol mi dà pena.

Tua voce armonica,
Ch'or dolce, ora grave,
Ma sempre tenera,
Sempre soave
Dai labbri scioglesi,
E in bei concenti
Tempra gli accenti;

Qualor tra lucide
Notturne scene
L'orecchio docile
A ferir viene,
Con dolce, incognita
Forza d'amore
Mi lega il core.

Qual nuovo insolito,
Stupor, se Orfeo
Al suon di concava
Lira poteo
Trar seco attonite
Le selve, e i pronti
Seguaci monti?

Se là fin d'Erebo
Le disperate
Inesorabili
Furie agitate
L'ascoltan placide,
Se ubbidiente
Cerbero il sente?

Ahi vate misero!
Che valse poi
Aver fin d'Erebo
Co' modi tuoi
Placate e domite
Le disperate
Furie agitate;

Se al fin, egregio,
Divin Cantore,
Insaziabile
Cieco livore
Lasciar doveati
Di crudo scempio
Funesto esempio!

Ma tu, dell'anime
Fiamme, e desio,
Sorte sì barbara,
Destin sì rio,
S'altrui d'invidia
Oggetto sei,
Temer non dei.

D'un mar che mormora,
Che irato freme,
Che in vasti innalzasi
Flutti, non teme
Nocchier, che a placido
Sicuro porto
Mirasi scorto.

Virtute è il placido
Porto beato,
Che all'onde involati
D'avvero Fato;
L'amico Genio,
Che ti difende,
Per man ti prende.

Seco le torbide
Procelle insorte,
Che in van minacciano
Perigli e morte
Seco que' tumidi
Rei flutti infidi
Sogguardi, e ridi.

Dissertazione n. 26, del 18 febbraio 1752, di Nicola Paci, nobile, De praestantia musicae 190.
Dissertazione n. 27, del 4 marzo 1752, di Francesco Fabbri, De praestantia Academiae nostrae. Essa contiene, come apprendiamo dal Codex [c. 19v], molte lodi di Bianchi quale restitutore dei Lincei e per la sua attività gratuita di pubblico insegnante di varie Scienze 191.
Dissertazioni n. 28 e n. 29, entrambe del 17 marzo 1752: si tratta della lettura di lettere del governo di Firenze inviate ai Malatesti di Rimini (1378-1400), e ricopiate da Lodovico Coltellini da un codice ms. di Coluccio Salutati, esistente presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze; e della trattazione di Bianchi De rebus antiquis 192.
Dissertazioni n. 30 e n. 31: il 18 aprile 1755, Planco presenta due sue epistole mediche, la prima sull'"urina con sedimento ceruleo" 193, e la seconda sulle polemiche relative al caso Pilastri, già trattato il 28 maggio 1751. Alle due epistole, Bianchi premette una prefazione in italiano in cui spiega che le adunanze dei Lincei non sono frequenti perché molti accademici abitano fuori Rimini, dove esistono poi varie scuole, al posto di quella unica di Planco, che forniva ai Lincei medesimi parecchi relatori 194. Qui finiscono le notizie del Codex.
Tra le carte planchiane conservate in Gambalunghiana [FGMB], ci sono tre fascicoli che rimandano a probabili dissertazioni accademiche. Nel n. 61 si ripropone un testo di carattere religioso già letto in pubblico ben ventidue anni prima, con una premessa di Bianchi sui pregi della vecchiaia e della "cattiva memoria" che reca "grandissimi vantaggi", come il gustare la riproposta di cose antiche che non si ricordano più. Nel n. 65, c'è il Discorso sopra il problema dell'Accademia, che abbiamo già mentovato. Del n. 75, intitolato Congressi letterari della nostra Accademia (1761), diremo invece più avanti.

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