Una tematica affascinante: il brigantaggio, di Maria Lorella

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Una tematica affascinante: il brigantaggio, di Maria Lorella

 

Nel periodo in cui vive il Misasi, il fenomeno del brigantaggio è ormai quasi del tutto spento; tuttavia è ancora vivo il ricordo di briganti generosi coi deboli e crudeli coi potenti, di briganti che vendicano il popolo oppresso, che impongono ai signori un’equa ripartizione del suolo e dei prodotti della terra. Nel libro intitolato Il gran bosco d’Italia, opera in cui l’autore calabrese sintetizza tute le osservazioni sulla Sila e il brigantaggio già espresse nelle novelle e nei romanzi, è messo in luce quel clima di attese e di speranze che accompagnò il brigantaggio. L’autore, infatti, scrive:

“La tradizione ha conservato il ricordo di alcuni briganti, buoni coi deboli e coi poveri, fieri e crudeli coi ricchi e i potenti. Ci ricorda briganti che toglievano al ricco per dare al povero, che avevano preso i boschi per farsi i vendicatori del popolo sofferente e giustizieri inesorabili e imparziali; briganti che dotavano le fanciulle povere; che pagavano il cambio all’unico figlio di poveri contadini; briganti che imponevano al ricco signore, burbanzoso ed avaro, d’essere equo nelle ripartizioni delle derrate ai coloni; briganti che la notte picchiavano alla porta di un tugurio e partivano dopo aver deposto sullo scalino una borsa colma d’oro, che servir dovea al contadino minacciato di sequestro per pagar le tasse o il fitto al padrone”.[1]

La figura di Giosafatte Tallarico, ad esempio, rappresenta il brigante buono e generoso che lotta contro ogni sopruso e prepotenza dei forti e con la sua posizione a favore dei deboli conquista la simpatia del lettore, nonché quella dei suoi contemporanei. Ne sono testimonianza le parole del Misasi:

“Il certo è questo, che il suo nome, nome di malfattori, qui da noi è ricordato con lode più che con biasimo, come quello di un protettore del povero contro il ricco, del debole contro il forte”.[2]

Il brigantaggio, come fenomeno sociale e politico, è una componente essenziale dell’opera misasiana. Il nostro autore, già nella prima giovinezza, era stato vivamente impressionato dal brigantaggio. Egli trae la materia dei suoi racconti dalle leggende narrategli e dalla lettura degli atti processuali osservati negli archivi del tribunale di Catanzaro. Il brigantaggio aveva influito sulla sensibilità del Misasi ragazzo. Egli ricorda:

“O dolci tempi della mia adolescenza, dolci serate trascorse a sentir la zia Nicolanna, una vegliarda che ricordava i Francesi e la guerra al coltello combattuta per dieci anni nelle nostre montagne, narrar le audaci imprese brigantesche, le storie truci e insieme pietose che poi dopo molti anni germogliarono nelle mie novelle e nei miei romanzi, poveri d’arte, ma non di sentimento armonioso per la mia povera terra che volli far conoscere nelle sue miserie, nei suoi vizi, nelle sue colpe, ma anche nelle sue virtù, nelle sue sventure, nei suoi eroismi”.[3]

Sulla strada Catanzaro-Cosenza, egli ebbe come compagna di viaggio la banda Perrelli ed assistette ad un assassinio commesso dagli uomini della banda. Del brigantaggio, all’epoca del Misasi, si discute ancora come di una cosa viva e presente e le molte croci sui valichi silani sono la manifestazione vivente di un passato ancora vicino. Molti miti e leggende sono, infatti, legati all’altipiano calabrese e le stesse parole del Misasi ne danno testimonianza:

“Le foreste fosche ove la notte urla il lupo; i monti nevosi che adergono al cielo le cime ove lo sparviero ha il nido; le caverne profonde ove le vergini rapite udirono parole d’amore frammiste alle bestemmie e scoppi di baci frammisti a’ gemiti di dolore, e vider lampeggiar d’occhi accesi di passione e lampeggiar di pugnali alzarsi per ferire; le valli profonde ove la fantasia popolare ha visto vagare nei tramonti malinconici le fate bianche e gli spiriti dei dannati che vanno errando intorno le croci elevate nei luoghi, e son molti i luoghi che han croci, ove lasciaron sola la carne uccisa da un colpo di scure o di fucile: tutto ciò fa parte della grande leggenda silvana che si frastaglia in cento racconti, i quali hanno per ero un bandito, e per passione un odio od un amore”.[4]

La tradizione ha creato, appunto, una specie di epopea brigantesca ed ha conservato il ricordo di briganti generosi coi deboli e crudeli coi potenti. Lo scrittore ricorda che la madre, mentre lo accarezzava da bambino, lo chiamava teneramente “brigantellu miu” e che i ragazzi nei loro giochi, si dividevano in due schiere, soldati e briganti, e quelli a cui toccava la parte del soldato rimanevano imbronciati ed irati.[5]

Il Misasi esalta il brigantaggio politico e i briganti, che considera eroici difensori della famiglia e della tradizione; nei Francesi, invece, vede lo straniero che calpesta la patria e violenta le donne; nei repubblicani e liberali vede soltanto i complici dello straniero. Il popolo calabrese

“fece buona accoglienza ai Francesi”[6]

però

“in breve la soldatesca prepotente, d’indole superba, la boria dei capi, l’ingordigia del conquistatore incominciarono a pesare sui vinti. Quantunque nei loro proclami molte e continue furono le lusinghe, le promesse, le proteste di stima e di amorevolezza; quantunque si parlasse in nome della libertà, della fratellanza e uguaglianza, parole che dovevano acclimatarsi fra noi e servire al farabuttismo politico dei nostri tempi, ben altrimenti agivano, ben altrimenti si mostravano coloro che di tali parole facevano pompa… Le tradizionali costumanze furono derise, derisa la religione, derise le pie credenze; e il giogo a poco a poco si aggravò sul collo dei vinti… Né tanta oppressione  infieriva soltanto sulla cosa pubblica, ché anche le domestiche pareti ne risentivano. I soldati, nei borghi, atterrate le porte, entravano nelle case a comandar ricovero e vitto, pretendendo lauti pranzi, soffici letti, e sotto gli occhi dei padri, dei mariti, dei fratelli, amore dalle donne”.[7]

Un simile contesto di avvenimenti e di situazioni, provoca per il Misasi, come logica conseguenza, il fatto che

“in breve tempo Calabria tutta incominciò a gemere, la vita ai conquistati divenne insopportabile, e i cuori si infiammavano d’odio feroce”.[8]

Alcune persone,

“nate al delitto, seppero spalmare di patriottismo le proprie turpitudini, ed oggi menan vanto di liberalismo puro che in linea diretta fan discendere dall’invasione francese, durante la quale essi, i liberali, i patrioti, furono le spie, le più immonde delle spie, quelle che favorirono lo straniero dei propri concittadini; furon gli alleati, i più sacrileghi che all’invasore straniero ingordo e brutale facilitarono le turpitudini a danno della loro patria”.[9]

L’autore cosentino attesta che

“non pochi furono quelli che parteggiando per le nuove idee importate dagli stranieri, eran mossi da onestà di propositi e generosità di sentimenti: e volevano che la libertà non fosse un vano nome”.[10]

Il Misasi, quindi, nonostante le sue frecciate contro i liberali, non fu né un reazionario né un filoborbonico, anche se da alcune osservazioni lo si potrebbe definire tale:

“Beati tempi quelli in cui non si era preoccupati né dalla politica né dalle questioni sociali in cui non si sapea che fossero società operaie e comitati elettorali; brogli municipali e intrighi e cabale”.[11]

Le sue affermazioni son dovute piuttosto ad un errore di valutazione storica. Egli non guardò le cose nel loro insieme, si fermò al dettaglio e non valutò convenientemente i motivi del brigantaggio.[12] Non soltanto i Francesi, ma anche i “galantuomini”, provocarono per il Misasi il brigantaggio.

“Il brigantaggio –scrive l’autore- non fu sempre politico, esso fu anche e specialmente sociale, e fa d’uopo cercarne le cause nell’ambiente che lo produsse, nell’indole, nella tradizione”.[13]

Dalle parole di un brigante si può intuire la correlazione esistente tra queste due concause:

“Essi vennero qui promettendo d’abolire i soprusi, le tirannie dei prepotenti, dei ricchi, dei signori, ed invece essi si son mostrati più feroci, più prepotenti dei signori, in odio ai quali tu, io, tutti i nostri amici, ci demmo alla campagna.. perché noi fummo briganti, ricordalo, prima per necessità, poscia per gusto. Ora se avessero mantenuto ciò che promettevano, libertà per tutti, giustizia pei deboli e pei forti, allora, sì, non ci sarebbero più briganti per le nostre campagne. Ora essi furono traditori perché non è vero che ci portarono la giustizia; ci portarono invece la schiavitù più vergognosa, la superbia, la violenza, e poiché per questo io mi detti alla campagna, io che ero un buono ed onesto contadino che un padrone ingordo ammiserì, che un padrone scostumato disonorò violandogli le sorelle, ed io uccisi il padrone ladro, superbo, scostumato e mi detti alla campagna, e divenni perciò quel che divenni; sento ora divampare tutto il mio odio per questa gente superba, violenta, ingorda che è venuta qui per ammiserirci, per schiaffeggiarci, per violentare le nostre donne, e mi sento brigante ora contro quegli stranieri, come ora fan cinquant’anni mi intesi brigante contro il mio padrone”.[14]

Lo scrittore mette in evidenza la condizione di miseria delle classi lavoratrici e la vita pressoché feudale dei “galantuomini”; in questo modo egli crea un quadro assai espressivo delle tristi e penose condizioni della Calabria di allora. Il Misasi non chiude gli occhi di fronte agli episodi di comune e volgare criminalità, ma pur considerandoli, non si lascia fuorviare nel suo giudizio. In molti racconti dell’autore calabrese viene ribadito il motivo principale che produsse il brigantaggio insistendo proprio sulla miseria, il malgoverno, la prepotenza e la crudeltà dei signori. Le prepotenze, i soprusi, le angherie dei padroni fanno sì che i deboli,

“oppressi in nome della legge dei privilegi e del convenzionalismo sociale”,[15]

trovino scampo e rifugio in Sila. Sono frequenti gli accenni al sorgere del brigantaggio e brani come quello qui sotto riportato risultano efficaci, anche se più volte ripetuti altrove:

“La giustizia a quei tempi era un nome vano e la legge una parola che aveva significato soltanto per i deboli. Beh, è vero che i deboli alla loro volta divenivano forti quando, stanchi dei soprusi e delle angherie, si davano alla campagna”.[16]

Un quadro molto espressivo di tale situazione è offerto da Donna Maria di Santafiora, una delle tante vittime alla mercé dei potenti:

“Qui da noi la giustizia è un nome, la legge una parola vuota. Qui da noi domina solo la forza, l’intrigo, il danaro. Qui si ruba, s’incendia, si uccide e si mena vanto dei propri delitti, né alcuno osa lagnarsi, neanche le vittime, perché temono danni maggiori. I giudici, quando non sono complici, sono amici indulgenti; si comprano se corrotti, si minacciano se onesti; ai gendarmi si chiudono gli occhi con un po’ di moneta, e fino nei sacerdoti del Signore, che dovrebbero difendere i deboli e gli oppressi, si estende la corruzione. Quante volte il segreto confidato al confessore fu svelato a chi aveva interesse a saperlo!”.[17]

È frequente nell’autore il tema del brigante “buono”, costretto a divenire fuorilegge per fatalità, come si può vedere dalle parole di uno di essi:

“Ognun di noi ha preso la campagna dopo aver vendicato un’offesa. Io ho sette omicidi sulla coscienza, ma di nessuno ho rimorso. Mio padre mi ha lasciato in eredità tre vendette e io l’ho compiute. Quel che noi siamo ci hanno fatto”.[18]

Sempre il medesimo brigante parla dei suoi rapporti coi galantuomini in questi termini:

“Quando ero un povero contadinello ai servigi dei marchesi di Macchia, mi si trattava peggio di un cane; ora i galantuomini mi trattano meglio di un potente signore, mi accarezzano, mi adulano, si inchinano ai miei voleri. Se tornassi un onesto uomo mi tratterebbero di nuovo come una bestia da soma”.[19]

Il Misasi non tace che spesso il brigante era al servizio dei galantuomini, per quanto più volte ripeta che il brigante combatte contro l’avarizia e le prepotenze di tali galantuomini. Egli giustifica i briganti col fatto che essi necessitavano della protezione dei galantuomini per difendersi dai rigori invernali, che non permettevano loro la permanenza nei boschi silani, e dalle incursioni dei gendarmi e degli “squadriglieri”. Egli scrive che

“senza le buone e fidate amicizie era impossibile che il brigante la durasse a lungo l’inverno, la Sila che era il suo regno, diveniva impraticabile e per la molta neve e per i freddi intensi, onde faceva d’uopo batter ritirata e nascondersi fino all’estate”.[20]

Perciò

“ognuno della banda aveva il luogo di rifugio, la casa di un amico che era un galantuomo”.[21]

L’ autore, nella sua analisi del brigantaggio, accenna anche ai motivi che spingevano i galantuomini a proteggere e ad aiutare il brigante:

“Primo perché l’influena dei signorotti dei nostri villaggi era accresciuta dal sospetto che fossero in lega con una banda brigantesca, secondo perché ci era sempre un nemico da far uccidere, una loro volontà da imporre, una loro ambizione da conseguire”.[22]

Ai motivi già accennati quale causa del brigantaggio (quello politico e quello sociale), l’autore ne aggiunge altri forse discutibili, ma comunque degni di nota:

“Una delle cause del brigantaggio fu lo spirito inquieto, insofferente del popolo calabrese, popolo eminentemente fantasioso”.[23]

Il calabrese, secondo il Misasi, è trascinato alla vita brigantesca da un bisogno irresistibile di indipendenza, da un

“desiderio sfrenato di viver bene”.[24]



[1] Il gran bosco d’Italia, cit., pp. 108-109.

[2] Giosafatte Tallarico, cit., p.110.

[3] Il gran bosco d’Italia, cit. p. 43.

[4] La Sila, cit., p. 126.

[5] V. Il gran bosco d’Italia, cit., p. 101:

“Coi ragazzi della sua età faceva alle pietre divisi in due schiere, soldati e briganti; e che bronci e che ire se a lui toccava in sorte di far da soldato”.

[6] L’assedio di Amantea, cit., vol. 1°, p. 38.

[7] Ibidem, pp. 38 – 39.

[8] ibidem, pp. 39 – 40.

[9] Ibidem, p. 41.

[10] Ibidem.

[11] Giosafatte Tallarico, cit., p. 36.

[12] V. Francesco Spezzano: Prefazione a Giosafatte Tallarico, cit., p. 6.

[13] Il gran bosco d’Italia, cit., p. 90.

[14] L’assedio di Amantea, cit., vol. 1°, p. 56.

[15] Il gran bosco d’Italia, cit., p. 76.

[16] ibidem

[17] Frate Angelico, cit., p. 141.

[18] L’assedio di Amantea, cit., vol. 1°, p. 27.

[19] Ibidem.

[20] Giosafatte Tallarico, cit., p. 94.

[21] Giosafatte Tallarico, cit., p. 94.

[22] ibidem

[23] Il gran bosco d’Italia, cit., pp. 107-108.

[24] Ibidem, p. 104.

 

Contesto

La narrativa di Nicola Misasi, di Maria Lorello



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