Il "Decameron" di Boccaccio

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Il "Decameron" di Boccaccio

Sommario
L'opera, che ha il sottotitolo alighieriano di "principe Galeotto", fu scritta nel 1349-1353, all'indomani cioè della peste del 1348: l'evento luttuoso dà "orrido cominciamento" all'opera. Il testo fu poi revisionato e ritrascritto. Il titolo è grecizzante, forgiato probabilmente sul titolo dell'"Hexameron" di Ambrogius.
Le digressioni sulle attività idilliche e beate della brigata, i commenti vari degli ascoltatori, le intrusioni e le conclusioni dell'autore, animano e variano lo schema della cornice. La cornice non ha funzioni solo ornamentali, ma serve a chiudere in un affresco caratterizzato un ideale di vita e di realtà che i racconti presentano e rifrangono nei più vari e multiformi aspetti. All'interno delle singole novelle si riproduce in poliedriche sfaccettature una viva unità, quella della complessa vita umana la cui salvezza tutta laica è additata da Boccaccio nella forza della passione e dell'intelligenza.

Nei racconti di Boccaccio sfilano una galleria vasta e multicolore di vicende e figure, emblemi e simboli di virtù e di vizi. Lo sguardo dello scrittore è ora distaccato ora ironico, ora appassionato e partecipe, ma sempre senza compiacimenti. Così gli eventi valorosi di Tito e Gisippo, le passioni erotiche e travolgenti della moglie di Guglielmo Rossiglione, di Ghismonda di Salerno, di Lisabetta da Messina; le traversie degli sciocchi come Andreuccio da Perugia, Calandrino, Ferondo; le trovate argute degli ipocriti e imbroglioni come frate Cipolla, ser Ciappelletto, Martellino; gli affreschi maliziosi e ridanciani come il racconto delle monache e della badessa, o la novella di Masetto da Lamporecchio; le più raffinate qualità dell'arguzia gentile di Cisti fornaio, l'intelligenza di Melchisedech, l'ingegno e la modestia di Giotto, l'aristocrazia di Guido Cavalcanti. In questo quadro rientra anche l'osceno e il licenzioso.
Dell'erotismo Boccaccio rivendica i diritti anche per l'arte argomentando i temi di una consapevole poetica della natura e del comico nella introduzione alla Quarta Giornata, ricca di spunti polemici e innovatori. Nella sua opera la realtà prende il posto del mito e dell'allegoria, mentre il genere novellistico degli ameni fabliaux e dei devozionali exempla è ribaltato in una fitta e cangiante trama di realismo comico e tragico, in cui predominano amore, avventura, intrigo, beffa, odio, riflessione morale.
Così ad esempio la novella di Lisetta (IV giornata), ambientata nella Venezia dei primi del XIV secolo. La storia è quella di Alberto da Imola che per fottere con una ragazza le fa credere di essere l'arcangelo Gabriele. Lisetta, «baderla e zuccalvento», si vanta della faccenda con alcune sue amiche, suscitando ovviamente risa e sberleffi. Quando i parenti di Lisetta cercano di sorprendere Alberto, questo si salva buttandosi da una finestra nel Canal Grande e rifugiandosi a casa di un pover'uomo che però lo fa travestire da «uom selvatico» e lo espone poi in piazza ai lazzi della gente. I frati giustizieri poi lo portano via e lo condannano al carcere perpetuo. Quel che importa non è la conclusione, il ritorno all'ordine, quanto il gusto stesso della narrazione, tra malizia e dissacrazione. Il racconto è tipicamente una parodia: parodia degli exempla devozionali e dei racconti religiosi sull'apparizione angelica presso beate e vergini, parodia dei modi dello stilnovo e degli amori cortesi (Lisetta è «dolce» sì , ma «dolce di sale» cioè stupida: ma è solo una tra le tante parodizzazioni e distorcimenti proposti), e dissacrazione anti- veneziana della più famosa e fastosa sacra rappresentazione che si celebrava al tempo proprio a Venezia (allora nemica e concorrente di Firenze), la festa dell'annunciazione detta "delle Marie".

Un favolismo in cui vi è posto anche per sprazzi di horror. Così nel racconto ravennate di Nastagio degli Onesti (V, 8): «Nastagio degli Onesti, amando una de' Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato; vassene pregato da' suoi a Chiassi; quivi vede cacciare a un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani; invita i parenti suoi e quella donna amata da lui a un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranere: e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio», secondo il sommario di Boccaccio. Leggende di cacce infernali tra selve spettarli o avelli infuocati correvano da secoli l'europa, anche su suggestioni orientali e di mitologie nordiche. Erano attribuite a Odino, a Artù , oppure - in Italia - a Teodorico di Ravenna. Queste fantasie d'oltretomba assunsero l'aspetto di particolari forme di punizione per peccati e delitti soprattutto d'amore. Elinando e forse anche Passavanti furono autori di narrazioni di questo genere. Ma Boccaccio colorò l'allucinante scena della caccia infernale di elementi sognatamente orrorosi, su suggestioni e allusioni che oggi etichettiamo come aligheriane (si pensi a «la divina foresta spessa e viva [...] | tal qual di ramo in ramo si raccoglie | per la pineta in sul lito di Chiassi» di Alighieri, in: Purgatorio, XXVIII, 2 e versi successivi. Ma anche ai vari cani famelici presenti in Inferno XIII, 111; e Inferno XXXIII, 31). Boccaccio, rispetto a Elinando e a Passavanti, inserisce i cani, che movimentano in maniera selvaggia tutta la scena. Indirettamente tutta la scena rievoca il mito classico di Atteon sbranato dai cani per volere di Diana, solo che qui non è più la vendetta di una donna sull'uomo colpevole di irriverenza amorosa, ma dell'uomo offeso su una donna spregiatrice d'amore (com'è anche nella novella dello scolaro, in VIII, 7; come sarà poi nel "Corbaccio"). La caccia infernale non ha senso esclusivo tutto punitivo, come nella mitologia antica e nella tradizione romanza; né ha valore di minaccia di fuochi demoniaci come nella letteratura ascetica e degli exempla fino a Passavanti. In Boccaccio diventa un episodio, in un largo e luminoso affresco patinato d'oro antico, della società signorile ravennate, evocata con il linguaggio di amori appassionati e di generose cortesie. L'immagine tremenda della caccia nella foresta di Chiassi assume una funzione redentrice: permette alla Traversari di redimersi, diventare da nemica ancella d'amore. E così giungere alla conclusione 'naturale' del matrimonio, come sempre avviene in Boccaccio. In questa novella, con un chè di solenne e festoso, grazie all'uso dei ritmi musicali del settenario e dell'endecasillabo («e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse»).
Il "Decameron" è specchio fedele e arguto della civiltà mercantile borghese, della società comunale italica nel suo pieno sviluppo, ma in cui si avvertono sintomi di crisi. Una realtà di traffici, di lotta per sopravvivere, di conquista e violenza, di ingegno industrioso e abile. Boccaccio coglie ombre e luci di un passato ancora vivo, di un futuro problematico ma anche fiduciosamente atteso.
La struttura del "Decameron" si attua anche grazie a una prosa policorde e variabile, lavorata a più livelli. Solenne e distesa in periodi ipotattici. Scattante, secca, dinamica. In altri punti estrosa e sempre duttilissima nel mimare dialoghi mordenti e vivacissimi.

Il "Decameron" ebbe una immediata diffusione, sia in Italia che in europa. Numerose furono subito le traduzioni e imitazioni. Un influsso che si ebbe sui novellieri posteriori come Sacchetti, Masuccio da Salerno, Giraldi Cinzio ecc. Ma anche sui trattatisti come Bembo, Della Casa, Castiglione, che inserirono i loro dialoghi in una cornice mutuata dal "Decameron"; e soprattutto sul teatro del XVI secolo, che derivò trame comiche e romanzesche, e procedimenti retorici. Retori e grammatici del XVI secolo lodarono l'opera come modello di stile; sospetto e censura vennero dagli ambienti cattolici e sessuofobi. La critica romanticistica, nel XIX secolo procedette a rivendicarne il valore umano e la varietà di motivi; in particolare si ricordi la lettura di *De Sanctis che paragonò la "commedia umana" di Boccaccio alla "commedia divina" di Alighieri.
Contesto: indice Boccaccio



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