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Urbani, ministro dei nostri "Mali Culturali"

Patrimoni "svenduti" al miglior offerente per far cassa; mini e maxi condoni; il nuovo devastante Codice Urbani e il caso La Reggina

di Redazione - mercoledì 26 gennaio 2005 - 4699 letture

Patrimoni "svenduti" al miglior offerente per far cassa; mini e maxi condoni scivolati tra una carta e l’altra di Palazzo Chigi come se nulla fosse; leggi e leggine scarabocchiate su misura che sviliscono il sapere, offendono la vista e fanno piazza pulita dei vertici scomodi: benvenuti nella galassia dei "Mali Culturali" italiani. Nell’universo boccheggiante figlio di quel Codice, entrato in vigore lo scorso maggio, che il suo ideatore, il ministro Giuliano Urbani, aveva tanto strombazzato sulle colonne del Corsera come panacea dello stivale culturale e che, invece, adesso mette a repentaglio l’intera rete direttiva, crea malumori e spinge gli uffici della soprintendenza e tutti i musei della capitale a chiudere i battenti per un giorno (giovedì) in segno di protesta "contro il licenziamento del soprintendente romano Adriano La Regina".

Una fetta di parlamento, ai tempi in cui la "rivoluzione" era in embrione, aveva tentato di bloccarne l’iter legislativo, sì, ma invano. Oggi, ad otto mesi dalla sua entrata in vigore, le saette sul tavolo del dicastero ai Beni Culturali si contano a grappoli. "La situazione è diventata insostenibile", hanno tuonato più volte tutte le soprintendenze. Ma Urbani ha sempre gongolato difendendo a spada tratta il "suo" Codice nato, in linea teorica, "per facilitare la collaborazione con i governi territoriali". Ha glissato sul condono edilizio di "Berlusconi & friends", sulla delega ambientale (per cui sarà facile cancellare i reati edilizi in zone ambientali protette, compiuti fino al 30 settembre 2004, chiedendo un condono penale entro il 31 gennaio), sulla legge obiettivo per le grandi opere, sulle crisi dei grandi musei e sulle privatizzazioni "selvagge". Ma, adesso, spalle al muro, il ministro si trova a fare i conti con la mobilitazione dell’intera rete romana stretta attorno al suo decano, Adriano La Regina, confermato in carica per un altro triennio lo scorso agosto dallo stesso Urbani e liquidato con un asciutto "arrivederci e grazie" dai vertici governativi oggi.

Sulla carta, il soprintendente è "fuori" per una norma diramata con una circolare lo scorso novembre ("le amministrazioni che trattengono in servizio i propri dirigenti non devono sforare il budget previsto"). Nei fatti, invece, La Regina giura si tratti di "altro". Di cosa si sarebbe macchiato, dunque, il papà dei sistemi archeologici romani per meritare un tale benservito? Il diretto interessato un’ideuccia l’avrebbe, e non ne fa mistero: "si punta a sostituire i soprintendenti scomodi", ha dichiarato pubblicamente. Scomodi, per un governo che tenta di far cassa vendendo a destra e a manca il patrimonio pubblico, che carica sulle soprintendenze gli oneri delle stime di fattibilità non tenendo conto che, a fronte di un personale fantasma (visti i continui tagli delle occupazioni, e che nessun concorso viene bandito dal 1997) e di fondi stillati col contagocce dall’emorragica finanziaria 2005, i centri di tutela stanno lì lì per scoppiare.

Scomodi perché, irriverentemente, denunciano contraddizioni, limiti e voragini endogene di una riforma, metafora di uno "stato impresa", in cui il patrimonio culturale rappresenta un mero volano economico e non un valore da tutelare. La Regina per questo è stato sempre scomodo. Da quando si oppose alla costruzione di un sottopassaggio sul Lungo Tevere, davanti a Castel Sant’Angelo, fino ad oggi che, con le sue "uscite", sferra stilettate allo "smantellamento delle soprintendenze", alla Patrimonio dello Stato spa, allo spettro della Privatizzazione del Museo nazionale di Roma, e agli effetti del tanto chiacchierato diktat del "silenzio-assenso" del nuovo Codice, cioè l’infinito ping pong tra demanio e soprintendenze sulla richiesta di valutazione dei beni del patrimonio pubblico che si dovrebbero mettere in vendita. Un codice secondo cui gli istituti di tutela, appunto, avrebbero solo 120 giorni per rispondere sull’effettiva idoneità. Un codice per cui ad ogni mancata risposta, a prescindere da cosa l’abbia generata, dà via libera alla vendita.

Il "caso La Regina" non è però un fenomeno isolato. Stessa sorte, infatti, per i colleghi Ernesto Milano, direttore della Biblioteca Estense di Modena (cacciato con una telefonata a mezzogiorno del 31 dicembre) e Annamaria Petrioli Tofani, direttrice degli Uffizi. Le altre figure rimaste, quelle vaccinate al ciclone Urbani, vengono, invece, sballottate ai quattro angoli del paese per il gusto del "rimpasto", specie quando il chiacchiericcio diventa "insopportabile".

Si anima così il quadro di una mappa d’istituti di tutela svuotati di ruolo e capacità di lavoro, dove sulla scacchiera i professionisti (che in base al nuovo codice non potranno ottenere contratti superiori ai tre anni) ruotano come pedine: Francesco Scoppola lascia il posto nella Marche a Mario Lolli Ghetti, Luisa Fornari da Parma approda a Siena, e La Regina, Milano e Petrioli Tofani a casa. La poltrona romana passa ad Angelo Bottini, che lascia però scoperta quella in Toscana. Per gli altri? I più fortunati in prepensionamento attorno alla metà di marzo. Nel frattempo, in nomina una quarantina di "manager" della cultura, sempre più "imprenditori", e sempre meno "soprintendenti".


L’articolo di Carmen Ruggeri è apparso su: www.aprileonline.info n° 183 del 22/01/2005.


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> Urbani, ministro dei nostri "Mali Culturali"
10 marzo 2005, di : Deni

La Regina, non La Reggina (squadra di calcio). Sono errori che capitano...