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Se a ’’rubare’’ il posto siamo noi

Gli operai inglesi sono in sciopero in diverse zone della Gran Bretagna perchè la Irem, azienda di Siracusa, ha vinto una commessa per realizzare un nuovo impianto ad alta tecnologia nel Lincolnshire, ma per farlo ha scelto lavoratori specializzati italiani. Un articolo di Marzia Bonacci.

di Redazione - domenica 1 febbraio 2009 - 2643 letture

Gli operai inglesi sono in sciopero in diverse zone della Gran Bretagna perchè la Irem, azienda di Siracusa, ha vinto una commessa per realizzare un nuovo impianto ad alta tecnologia nel Lincolnshire, ma per farlo ha scelto lavoratori specializzati italiani. Una decisione che ha provocato la rivolta dei locali che accusano i nostri connazionali di essere "ladri di lavoro" pur affermando di "non essere razzisti"

Sembra un messaggio politico dritto dritto alla Lega Nord o ad Alleanza Nazionale. Un ammonimento verso i rigurgiti razzisti che da tempo si sono infiltrati nel nostro Bel Paese. Insomma un segnale a forze politiche e società civile italica che arriva da oltre Manica e che testimonia gli strani ribaltamenti con cui la storia, spesso, ci costringe a confrontarci. Per fortuna forse, perché sebbene tristi comunque ci richiamano al senso della realtà, ricordandoci che quel che facciamo all’altro potremmo subirlo anche noi. In un domani che non è poi nemmeno tanto prossimo e non per profezia evangelica, ma perchè le dinamiche economiche mutano i tradizionali equilibri sociali. Gli operai inglesi da tre giorni sono in sciopero in diverse zone della Gran Bretagna al grido di "stranieri ladri di lavoro", "tornate a casa vostra". E nella protesta il bersaglio critico siamo noi, o meglio gli operai e i tecnici italiani, insieme ad un minor gruppo di lavoratori portoghesi.

La vicenda è semplice. C’è una azienda italiana di Siracusa, la Irem, che ha vinto una gara d’appalto da ben 200 milioni di sterline per costruire un nuovo impianto ad alta tecnologia in una raffineria di petrolio situata nel Lincolnshire, nel Nord dell’Inghilterra. La Lindsey Oil, che fa capo alla Total, è un centro che vede occupate stabilmente 500 persone, centinaia di lavoratori a termine in base alle esigenze e migliaia a seconda dei momentanei ed immediati bisogni. Tradotto in numeri: un impianto che tratta 10 milioni di greggio all’anno, cioè 200 mila barili giornalieri.

Per condurre il lavoro la Irem ha deciso di portare con sé, oltre Manica, 300 tecnici specializzati provenienti dall’Italia e in parte dal Portogallo. Una presenza che è stata accolta dai lavoratori inglesi allo stesso modo di come certi lavoratori italiani accolgono gli stranieri che sbarcano nel nostro paese: con il rifiuto e la chiusura condite da un nemmeno troppo vago razzismo. "British work for british workers", che gli operai inglesi scandiscono, è infatti la traduzione di quello che da noi suona come "lavoro italiano per lavoratori italiani". La Total secondo loro avrebbe dovuto dargli preferenza e il Daily Express motiva la scelta con la cruda ragione economica del "costano meno". Ma il colosso francese dell’oro nero respinge al mittente tutte le critiche e la diretta interessata, la Irem, fa sapere tramite il suo vicepresidente Musso che dovendo realizzare lavori per 17 milioni di euro in quattro mesi, non si poteva che privilegiare operai italiani. "Sono opere ad alta specializzazione e, quindi, servono operai specializzati - ha affermato Musso- Loro in quella raffineria avevano problemi con questo progetto che dura da anni e ci hanno chiamati. Abbiamo fatto una gara e l’abbiamo vinta secondo le norme internazionali".

Versione che non placa gli animi locali tanto che la protesta si è sparsa a macchia d’olio anche nel Galles e nella Scozia, con la solidarietà dei sindacati. Bernard McAuley, sindacalista dell’Unite, ha infatti affermato in un comizio che "ci sono sufficienti operai specializzati disoccupati che vogliono il diritto a lavorare su questo sito e chiedono il diritto a lavorarci" e che per questo "vogliamo giustizia". Da chi? Sicuramente dal governo, a cui hanno richiesto un incontro. A far sponda a queste rivendicazioni ci ha pensato Hilary Benn, ministro dell’Ambiente, che ha parlato del diritto degli inglesi "a ricevere una risposta". L’esecutivo comunque terrà nei prossimi giorni degli incontri con l’industria per "garantire che stanno facendo tutto il possibile per sostenere l’economia britannica". Eppure a detta della Total -che ha difeso la scelta della società italiana di portare con sé manodopera nazionale per ragioni di qualificazione professionale maggiore- nessun lavoratore locale è stato licenziato. Del resto, sostengono in molti, i contratti della raffineria Lindsey sono stati confezionati "un po’ di tempo fa" quando nel settore scarseggiava la forza lavoro e certo non si prevedeva la crisi che pure è piombata sulla Gran Bretagna come sul resto del globo.

"La nostra non è un protesta razzista" ma una questione "di giustizia", spiegano a stampa e tv le tute blu inglesi. E forse sarà vero. La crisi economica spezza la solidarietà di classe e sembra far tramontare -se ancora ne esisteva qualche scampolo- quello spirito operaio che un tempo lottava per caratterizzarsi come "internazionalista", in una guerra fra poveri che nasce in alto, nelle borse e nelle speculazioni, e scende verso il basso per travolgere non solo posti di lavoro, ma anche senso d’appartenenza. Quel po’ di "spirito di classe", si diceva un tempo, che oggi si addormenta definitivamente perché la torta da spartire è molto rimpicciolita, come ha ricordato la Cgil parlando di una "guerra fra poveri" e, per voce di Susanna Camusso, di "un monito a chi in Italia vuole tentare di dividere".

Chissà allora cosa diranno Bossi e fratelli padani -che aspirano a separare il Nord e il Sud in Italia e nel mondo- nel sentire che adesso, in Inghilterra, siamo noi "quelli che rubano il posto di lavoro". Probabilmente niente, avendo da tempo già dato prova di aver dimenticato il popolo di migranti che siamo stati in secoli passati, per attaccare (Lampedusa docet) quanti sbarcano sulle nostre coste.


L’articolo di Marzia Bonacci è stato pubblicato il 30 gennaio 2009 su Aprileonline.info


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