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Luogo: Comune

Storia di otto artisti, tre telecamere, e di un confino creativo in un lillipuziano paesino della Toscana. E’ "Luogo: Comune", svoltosi il 10-28 maggio 2005

di Ivan Carozzi - mercoledì 8 giugno 2005 - 9969 letture

Eccoli seduti, il ragazzo che succhia il ghiacciolo, il suo gemello con un paio di occhiali da sole che raccolgono un doppio riflesso grandangolare della piazza, l’ottantenne addormentato che russa sotto un rovente sole di maggio. Siedono davanti al sagrato di una pieve romanica che si affaccia sull’unica piazza del paese. Il paese si chiama Casale Marittimo. La piazza è lo spazio comune del villaggio, il suo unico luogo comune. Ogni giorno la gente di qui siede su queste cinque sedie di plastica. Una sigaretta, due, un camparino, la punta del naso lucidata dai raggi del sole. Restano seduti per ore come se questa immobilità fosse una consapevole alternativa al movimento delle cose. Casale Marittimo, come ogni altro piccolo paese, specie se molto distante dalle periferie e dai grandi centri abitati, somiglia a quegli asteoroidi che viaggiano lentissimamente sulle orbite più esterne delle galassie. E la sua, di galassie, è una delle più fotografate al mondo, si chiama Toscana, e affacciandosi ad una delle finestrelle del borgo se ne può avere un incantevole assaggio fatto di colline verdi e ocra che come gobbe di cammelli si allontanano verso la striscia argentata del litorale livornese. Intanto, dalle stradine laterali che conducono sulla piazza, come in un western o in una barzelletta, spuntano un austriaco, poi un messicano, e un altro austriaco ancora. In realtà sono soltanto degli artisti, invitati a soggiornare qui a Casale per una manifestazione chiamata ‘Luogo: Comune’.

‘Luogo: Comune’, con i due misteriosi puntini nel mezzo, altro non è che una residenza artistica nata da una brillante intuizione di Emanuele Guidi, membro dell’associazione italoviennese Kforumvienna. Dopo aver scorso un dito sulla mappa, dopo aver individuato questo paesino medievale che somiglia ad un souvenir di tufo e arenaria appoggiato su di un colle che si apre su di una specie di best of della campagna toscana, Emanuele ha deciso di invitare sul posto otto artisti di diversa provenienza: tre italiani (il duo Matteo Patrucco/Walter Visentin e la livornese Katia Alicante), quattro austriaci (Jochen Höller, Edith Payer, Gerald Zahn/Anita Land) e Ivan Juarez, un messicano nativo del Districto Federal (anche detto DF, anche detto ‘El Monstruo’, ovvero Città del Messico). Il concept a monte di ‘Luogo: Comune’ è tanto complesso e sfumato, forse anche a causa degli enigmatici puntini, che potrebbe in realtà contenere due concept in un uno. Ci provo: ‘otto artisti spettatori di un paesaggio meraviglioso ma allo stesso tempo oggetto di una potente stratificazione di segni forgiati nell’universo pubblicitario, si troveranno come bidimensionalmente schiacciati sulla superficie di questo formidabile blue screen che più volte ha fatto da sfondo a patinati spot pubblicitari e a fiabesche brochure turistiche, e dovranno così cercare di trarre un senso da questa odorosa miscela metafisica di finzione e realtà’. La Toscana, quindi, interpretata alla stregua di un luogo comune del villaggio globale. Come gli atolli della Polinesia, le cascate del Niagara o gli hotel di Las Vegas. L’autenticità della sua storia e uno dei più poetici paesaggi del mondo scavati dal lavorio lento e inesorabile della fiction. La mappa che avvolge il territorio. Oppure anche: ‘otto artisti che per diciotto giorni si troveranno in uno spazio condiviso, comune, a confronto con una comunità ristretta, quella di Casale Marittimo che conta circa mille anime, e che da questa feconda, a tratti disorientante esperienza umana, dovranno ricavare le idee e gli stimoli necessari a fabbricare un dignitoso progetto artistico’. Qui per luogo comune s’intende invece la concretezza fisica di un luogo che raccolga in sé il passaggio di due o più umani. Per quanto riguarda invece l’high concept della manifestazione, si tratta di una categoria analitica così perversamente sottile che davvero non saprei che cosa dire al riguardo. Ad ogni modo, il titolo ‘Luogo: Comune’, sia nella sua accezione metaforica che in quella letterale, è stata ideato per incorniciare quello spazio concettuale entro il quale gli artisti dovranno pensare i loro lavori.

Gli artisti si sono così trattenuti all’interno del paese per tre lunghe settimane, vivendo, dormendo e mangiando nelle dodici stanze più uliveto di uno splendido e antico casale chiamato ‘La Gioiosa’. Un edificio su due piani, con camini, travi e pavimenti in cotto, dove i solai tremano, le porte cigolano e gli scuri sbattono ad ogni bava di vento. Nel corso dei primi giorni, gli artisti hanno familiarizzato con gli abitanti, i riti, le abitudini del paese, come astronauti che scesi dalla navicella testano la superficie e l’atmosfera di un nuovo pianeta. Una questione di ritmi, l’allunaggio, tempistiche varie, sincronismi, che evidentemente si sono scontrati, più o meno dolcemente, più o meno brutalmente, con i tempi mentali e probabilmente biologici di individui che sono cresciuti e tuttora vivono nella temperie metropolitana di città come Torino, Vienna ed anche Barcellona, visto che Juarez da diversi anni lavora come architetto nel capoluogo catalano. Così, lentamente, a forza di passeggiate, brevi scambi di battute con la gente del posto e prolungati bagni di sole sulle sedie del bar della piazza, gli otto artisti hanno cominciato a mimetizzarsi fra i fotogrammi dell’inarrestabile moviola che giorno dopo giorno puntella la vita e la cronaca di questa minuscola comunità.

Durante il primo weekend della residenza il gruppo è stato raggiunto dall’artista cinquantenne Cesare Pietroiusti, invitato da Emanuele per ricoprire il ruolo di tutor. Pietroiusti, uomo dai lineamenti sorprendentemente giovani, privo di baffi ma vagamente rassomigliante al Massimo Dalema dei tempi della FGCI, ha riunito gli otto artisti intorno ad un tavolo, quello in marmo e legno al centro della cucina de ‘La Gioiosa’, ed ha cominciato a tessere una complessa trama umana, quasi una sessione di brainstorming o una seduta di autoaiuto, in cui gli artisti hanno preso a conoscersi l’uno con l’altro, ad esprimere le proprie sensazioni su Casale, sul gruppo, ad esporre il primitivo nucleo d’idee intorno alle quali stavano già lavorando in vista della realizzazione del progetto.

Mentre i quattro austriaci e lo stesso Pietroiusti hanno sfoderato un brillante inglese, gli italiani hanno avuto non poche difficoltà, vistosamente impegnati nell’anamnesi di un vocabolario tutto impolverato e risalente all’epoca lontanissima delle scuole superiori (sembrava che in quei momenti venissero internamente attraversati da microraffiche di reminescenze appartenenti all’epoca dei banchi di scuola, dei cessi istoriati con disegni osceni e dei volti accigliati degli insegnanti), ciò non di meno aiutandosi con un uso efficace e a tratti commovente della gestualità. Ed anche questo è un luogo comune, sugli italiani, che almeno in questa circostanza è stato ampiamente confermato. Le sedute si sono quindi ripetute per qualche giorno. Ci sono state pause, decine di secondi d’imbarazzo, continue e comiche incomprensioni linguistiche, momenti di catarsi e rapide quanto balenanti epifanie dei tratti psicologici dominanti. Quello/a più creativo, quello/a più vanamente prolisso, quello/a più deciso e di poche parole, quello/a che confessa il suo momentaneo stato d’impasse, quello/a che gli s’infiammano le gote non appena prende parola, quello/a calmo e misurato, il tutto con una certa generale prevalenza del fattore ‘timidezza’, che sembrerebbe quasi una caratteristica delle giovani generazioni post Europa unita.

Le sedute sono state infine variamente disturbate da un gruppetto di maniaci dell’audiovisivo, seduti un po’ più defilati rispetto al tavolo della cucina, i quali erano anch’essi ospiti della manifestazione con il compito di realizzare un documentario su ‘Luogo: Comune’. Gente talmente maniaca, soprattutto lo staff tecnico, che quando va in bagno o al bar a prendersi un caffé vorrebbe poter sempre avvalersi della giusta illuminazione, di ombre come dio comanda, di un’esposizione che si rispetti, e che quando pianifica una vacanza, per esempio, si ostina a ragionare in termini di copione come:

Scena 1 Stazione Termini Est. Notte

In una fitta oscurità appena rischiarata dai bagliori dei neon, un uomo carico di bagagli (Roberto Beani) scende dagli scalini in metallo di un vagone per avviarsi lungo la piattaforma con fare circospetto...

oppure ‘Scena 13 Fori Imperiali Fade to black’, etc. E fra questi maniaci c’ero anch’io, non meno maniaco, in veste di story editor. Ed essendo io e il resto della troupe indottrinati da una serie di letture di testi di sceneggiatura americana classica, hollywoodiana, abbiamo tentato in ogni modo di costruire un plot che rispettasse tutti i crismi e i cliches strutturali (cioè dei luoghi comuni, in un certo senso) del caso: incidente scatenante, creazione di una forte attesa drammatica (Riusciranno gli artisti a realizzare un’opera d’arte degna di questo nome? Riusciranno mai a comunicare con gli abitanti nonostante lo scoglio della lingua? E se si, in quale artistica forma? E quale sarà l’esito del progetto certosinamente preparato da Emanuele? Gli abitanti si accorgeranno della presenza degli artisti o gli artisti verranno come assorbiti nella lentezza e nella monotonia della vita paesana, delle strade, dell’unica assolata piazza del paese, fino a scomparirvi dentro come un tono su tono?), sviluppo delle premesse, midpoint, climax, epilogo + l’istituzione di un confessionale allo scopo di esternare, in completa intimità con la macchina da presa, ogni emozione, difficoltà, perplessità, sensazione di pericolo, accerchiamento, isolamento etc.

Ma il vero epilogo si è visto quando gli artisti, di fronte all’esposizione delle linee fondamentali del progetto di documentario e di fronte ad una richiesta di collaborazione in senso drammaturgico-attoriale, si sono visti recapitare un serrato fuoco nemico di risposte contrarie. Troppo reality, troppa fiction, hanno detto gli artisti, ribadendo sottotraccia una antica ostilità dell’arte seria o colta nei confronti delle forme più popolari della narrazione. Per questo motivo, i maniaci dell’audiovisivo si sono trovati costretti a rinunciare alla forma documentario e ad abdicare verso un progetto più modesto di semplice documentazione video (anche detto backstage), complice, è giusto dirlo, la mancanza di una sceneggiatura definitiva (così a lungo e furiosamente dibattuta da non essere stata portata a termine) e una totale insufficienza di mezzi tecnici e umani che probabilmente, prima o poi, ci avrebbero comunque portato a ridimensionare drasticamente i nostri progetti iniziali.

Ma passati i primi giorni, e nonostante le telecamerine e i faretti che andavano e venivano per tutti gli ambienti della casa, le singole idee, i propositi, hanno iniziato a prendere una forma sempre più precisa. I due torinesi Matteo Patrucco e Walter Visentin, a bordo di un furgoncino Fiat hanno cominciato a perlustrare a tappeto le province di Pisa e di Livorno. Si sono messi alla ricerca di discariche abusive dove rifornirsi di tutte quelle cose di cui le famiglie si liberano, come parti di arredi anni ’60, ’70, ’80, brandelli di elettrodomestici, divanetti, sedie, pezzi di scale a pioli, lamiere, ma anche skateboards e taglieri da cucina. Tutto materiale di cui abitualmente si servono per i loro lavori, come se volessero, oltre al resto, completare una sorta di ciclo karmico della spazzatura o comunque di prolungarne la vita oltre l’orizzonte certo della biodegradazione o della cremazione all’interno di un inceneritore. Ogni pezzo viene inchiodato sull’altro a comporre delle architetture ibride di tre, quattro, anche cinque metri di altezza, completamente sgrammaticate, caotiche, eppure sorprendentemente stabili. Si chiamano ‘GAZEaBOut’ (letteralmente ‘guardarsi intorno’, ma anche un gioco di parole sul termine ‘Gazebo’), e ne hanno costruito uno al margine del piccolo parcheggio all’entrata del paese, una specie di presepe per automobili con vista su di una luccicante e ipersatura cartolina toscana.

Salendo i quattro gradini che conducono all’interno della struttura, si ottiene un punto di vista privilegiato verso la collina dirimpetto (la collina di Casalvecchio, che è anche un sito archeologico etrusco di una certa importanza), dove hanno pensato di costruire un secondo ‘GAZEaBOut’, intuendo che le due costruzioni avrebbero potuto replicare quel gioco topografico di sguardi, controllo, posizionamento, che era anche quello del sistema dei castelli, delle rocche e dei paesi di un tempo. A Casalvecchio, su di un magnifica altura appena trebbiata, hanno così eretto, lavorando giorno e notte, una formidabile struttura gemella, di cui la metà superiore che si arrampica nel vuoto, agghindata di drappi e teli bianchi, ricorda la gestalt di un veliero, mentre la metà inferiore che poggia con una piattaforma sul terreno, è stata adibita ad una sorta di salottino, quasi una palestra, con una vecchia cyclette, un angolo relax con una branda in pelle sintetica di colore bianco, una specie di salottino che ricorda quello algido e retrofuturista dello scrittore aggredito dalla banda dei drughi in ‘Arancia meccanica’.

L’austriaco Jochen Höller, invece, ha trovato qua e là, ma specialmente nel mini ufficio della Pro Loco, una pila di manifesti consunti risalenti alla Casale degli anni ’80 e ’90. Poi, previa concessione da parte del sindaco casalese Chiara Camerini, ha cominciato a riaffiggerli un po’ ovunque. Cantanti prezzolati, sagre, fiere del bestiame dell’agosto ‘87, concorsi di bellezza, di cabaret, e melanconici spettacoli di lap dance (le Sexy girls) tutti ingialliti dal tempo. Questo in modo da allestire un piano temporale parallelo al presente, un deja vu, o, come lo stesso Jochen ha detto in una sconsolata intervista concessa per il backstage, ‘per rappresentare l’estrema lentezza del tempo in questo luogo’. Difatti i maniaci dell’audiovisivo hanno più volte costretto gli artisti a sedere su delle sedie impagliate per rilasciare delle interviste, nonostante questi abbiano più volte espresso una certa istintiva riluttanza verso la macchina da presa, argomentata nei toni un po’ primitivi e atavici di quelle popolazioni indigene che avversano le immagini ritenendole una stregoneria in grado di violare l’anima e l’interiorità umana. Con il risultato che spesso le immagini, a causa dell’estrema povertà del set e a causa dello sguardo implorante degli intervistati (imploravano lo stop della macchina), evocano sinistramente gli appelli video di una troupe di reporter posti sotto sequestro. Va comunque detto che i maniaci dell’audiovisivo sono stati abbastanza gentili da non turbare eccessivamente il sogno creativo degli otto.

Anita Land e Gerald Zahn (coppia nel lavoro e nella vita, splendidamente affiatati) si sono invece portati da Vienna un borsone di plastica di un discount traboccante di animaletti di plastica. Animali della campagna, animali della giungla. Mucche, galline, pecorelle e poi leoni, scimmie, giraffe e persino uno gnu. Un campione piuttosto rappresentativo delle specie animali viventi. Così hanno pianificato una festosa marcia di circa quattrocento miniature, un cammino partito dalle dune della spiaggia di Bibbona, che ha attraversato la campagna, risalito le colline, trovato riparo nelle case dei contadini, e che è giunto a Casale alle 19 del 28 maggio, giorno fissato per l’inaugurazione. Una romantica e plastica metafora dei flussi turistici organizzati, del grand tour nell’ipercartolina toscana, ma anche un modo per raccontare il senso di estraneità di due giovani austriaci atterrati su di una sorta di asteroide in tufo e arenaria popolato da una tribù di ultrasessantenni, di cui nessuno, purtroppo, conosceva una sola parola d’inglese.

Anche Edith Payer (una ragazza austriaca di un metro e ottantacinque la cui statura si è rivelata di gran lunga superiore alla media maschile degli otto che si attestava sul metro e settantatre, sconfessando così le statistiche che indicano sul metro e settantanove l’altezza standard del maschio europeo, e quindi, costituendo il gruppo degli artisti un campione casuale e per questo motivo probabilmente valido, questo fatto smentirebbe il luogo comune intorno al carattere veridico delle statistiche, sebbene che, come dice un detto maya riportato dall’artista Ivan Juarez, l’altezza debba misurarsi non nella distanza fra la terra e la tua testa ma fra questa ed il vasto cielo) ha dovuto scontare una serie di difficoltà iniziali dovute alla lingua, all’impossibilità di comunicare, per lo meno verbalmente, con le persone del luogo. Una problematica che ha confessato non senza una certa emozione nel corso delle tre sedute con Cesare Pietroiusti e che in un primo momento le ha impedito di rapportarsi al luogo in termini non soltanto umani ma pure artistici. Alla fine, ha scelto di ricostruire un ambiente domestico all’interno della sua camera da letto alla ‘Gioiosa’, riempiendola di effetti personali, avatar, fotografie, suppellettili, che documentano una saga familiare immaginaria, la storia di una famiglia che come tante ha scelto di trasferirsi in Toscana. Una specie di versione di ‘The Sims’ ma senza grafica 3D e pietrificata nell’assenza e nella muta testimonianza degli oggetti che riempiono la stanza. Titolo (secondo me il più bello e per questo mi limiterò a citare soltanto questo): ‘Welcome, i am the 21TH century!’.

La livornese Katia Alicante, bisnipote di un pescatore spagnolo approdato in Italia agli inizi del secolo, ha lavorato sul dirottamento del concept di ‘Bandiera arancione’, il riconoscimento rilasciato dal Touring Club che certifica la qualità enogastronomica di un determinato luogo, il quale riconoscimento Casale Marittimo ha ottenuto da giusto qualche anno e di cui gli abitanti sembrano essere eccezionalmente orgogliosi. Katia si è così mossa alla ricerca di una mappa alternativa a quella di ‘Bandiera arancione’, individuando una serie di esercizi commerciali come la parrucchiera del paese, l’estetista, il negozio di fotografia, ed anche un’officina meccanica, che insieme costruissero un percorso che poi i visitatori arrivati per l’inaugurazione della mostra avrebbero dovuto ripercorrere. Lavorando inoltre sulla modificazione dell’immagine coordinata e del logo ufficiale di ‘Bandiera arancione’. Poi, nel corso della sua indagine, Katia ha scoperto un mondo sommerso tutto casalese, fatto di gente che recita, che intona famose arie d’opera, che ricama, fatto di vecchi cantanti beat con qualche 45 giri alle spalle, e a quel punto ha deciso di ripensare il progetto, costruendo un nuovo percorso fatto di umani che raccontano al pubblico le proprie ambizioni nascoste, i sogni lasciati a dormire nel cassetto, le piccole frustrazioni.

Ivan Juarez, trentenne dal temperamento mite, rilassato, con una ciocca di capelli corvini che gli va e viene dalla fronte, per qualche giorno ha camminato lungo le stradine semiasfaltate al di fuori della cinta del paese, deambulando come un uomo che avesse appena perduto la memoria, lasciando le strade battute e proseguendo poi fra l’erba alta o per le piane coltivate che guardano verso le colline e il mare. Qui, grazie al contadino Michele, si è procurato una ventina di balle di fieno pressato, le ha strette l’una contro l’altra, ed ha eretto una struttura rialzata che si solleva di un metro rispetto al terreno fiorito di lillà, papaveri e calendule. Si sale e si accede ad un corridoio stretto tra due pareti di fieno e quindi, montando su di un gradino, ci si affaccia su di un mirador, un punto di osservazione panoramico che getta lo sguardo da una parte sul paese, dall’altro sulle colline e il mare, e da cui, se capitate in una di queste luminose giornate di maggio dove l’aria è attraversata dal turbine di centinaia di glutinose sfere di polline, potreste anche scorgere in lontananza l’ombra prominente dell’isola D’Elba o quella piatta e sottile della Gorgona. La struttura, in realtà, può anche essere usata come un pensatoio, semplicemente sdraiandosi sul pavimento di fieno, osservando la tempera blu del cielo, prestando l’orecchio al verso degli uccellini fra i rami che a qualcuno degli artisti, in questi giorni di residenza, ha ricordato il suono di strani sms in arrivo da misteriose compagnie telefoniche animali. Quindi trattenersi qualche minuto e riempirsi i polmoni dell’odore della terra e dei fiori portato dal vento, odore che si mescola con quello più penetrante e materico del fieno. Una volta terminato il lavoro, Ivan è ritornato sulle strade del paese, fra la piazza e la chiesa, e sul tetto de ‘La Gioiosa’ ha pensato di collocare una sedia protetta da una placenta fatta con della rete da pesca: un nuovo punto di vista, ma questa volta decisamente aereo, che si proietta sull’intricato arazzo medievale del paese.

Intanto, mentre tutto questo aveva corso e i cervelli degli artisti ronzavano e giravano a pieno ritmo come una batteria di generatori di corrente, il gruppetto dei maniaci dell’audiovisivo continuava a macinare metri di nastro, riprendendo scorci e cartoline del paese, intervistando gli artisti al lavoro e la gente del borgo (il meccanico Rocco, la signora Landa, l’ex sindaco Pecchioni, il sindaco attualmente in carica, e poi Franco lo scultore, anche conosciuto come ‘Cristo’ per via della barba e dello stile di vita paleocristiano, e una coppia di fratelli gemelli, il gentilissimo Dante, il macellaio del paese, etc., ai quali i maniaci dell’audiovisivo hanno domandato: ‘Che cosa significa, secondo voi, l’espressione luogo comune?’, e tranne uno dei due gemelli che ha sentenziato: ‘La morte’, gli altri hanno ingenuamente optato per una interpretazione letterale dell’espressione e cioè: ‘Un luogo fisico che raccolga insieme due o più persone’, come la casa, la chiesa o l’unica assolata piazza del paese, di fatto tralasciando il significato secondo della locuzione che risale ai tempi della retorica di Aristotele, e così fondando una sorta di luogo comune al quadrato e circoscritto alla sola zona di Casale Marittimo, per cui qui, in questo fazzoletto di terra, tufo e arenaria, l’espressione cesserebbe di venire interpretata in metafora, e piuttosto, almeno di fronte alla telecamera, verrebbe letta soltanto nel suo significato letterale, non risemantizzato, come se la presenza della telecamera costituisse un fattore d’inibizione che impedisce al pensiero di svilupparsi in forme più complesse come la messa a fuoco di metafore e figure retoriche).

Si sono poi verificati innumerevoli e multiformi inconvenienti tecnici e i maniaci dell’audiovisivo hanno trascorso nottate insonni pensando a tutto il materiale accumulato che si sarebbero ritrovati in fase di montaggio, interrogandosi nel cuore della notte casalese su quale logica minimamente coerente avrebbero potuto ricavare da tutta quella estenuante, ipnotica serie d’immagini, cercando nella memoria delle proprie letture di riesumare qualche valido escamotage, trucco, artificio, per costruire dei raccordi fra una scena e l’altra, setacciando fra i luoghi comuni cinematografici quelli meglio adatti a salvare il loro lavoro e a preservare la loro anima di fronte all’altare del Cinema e all’Audiovisivo, inutilmente rincuorati dalla consapevolezza che fare cinema non ha nulla a che vedere con la brillante intuizione di un momento, con la riaffissione di vecchi manifesti, con l’uso di miniature di plastica o di balle di fieno, ma con una tenacia e una pazienza da veri artigiani. Per fare cinema, quindi, bisogna prima di tutto farsi un culo così, avere qualche buona idea, e magari anche una valigia piena di clichès o di luoghi comuni (formalmente parlando) sempre pronti a disposizione, per lo meno quando le cose si mettono davvero male. Se le tue immagini non stanno in piedi o non hanno un legante, puoi sempre mettere una voce fuori campo.

Le idee di un artista che si occupa di arte contemporanea, invece, possono permettersi di fermentare rapidamente, dentro a queste bolle fatte di ellissi, vuoti, silenzi, e geniali connessioni. Così, poco prima dell’inaugurazione, nel tardo pomeriggio del 28 maggio, mentre una luce che aveva il colore dell’olio d’oliva calava obliquamente sui tetti e le facciate di pietra delle abitazioni, Jochen Höller trovava ai piedi di un cassonetto un attaccapanni e un vecchio tappetino di plastica verde, quindi, mimetizzandosi fra la piccola folla di visitatori che stava procedendo lungo le ripide stradine che conducono verso la piazza del paese, si precipitava con passo Duchampiano ad appendere l’attaccapanni sull’ingresso della piazza e a sistemare il tappettino proprio di fronte ad una porta che non c’era, come a dire: ‘pulisciti le scarpe e suona il campanello, questo paese è piccolo piccolo, proprio come la tua casa’.


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