La postazione

Non potendo fare altro che inseguire frammenti di speranza inviava messaggi senza risposta. Nella postazione era rimasto solo lui; gli altri tre sopravvissuti avevano preferito andarsene… scappare.

Un racconto di ABU MANU

La logica aveva suggerito l’inutilità di continuare a "tenere" la postazione che da giorni, nel più completo isolamento, non riceveva ordini né notizie. La radio restava muta o emetteva sibili, gracidii e fischi fastidiosissimi.

All’orizzonte erano cessati i movimenti di truppe, gli affrontamenti, la guerra.

Migliaia di colonne di fumo acre e denso si alzavano dai paurosi incendi dei depositi di idrocarburi e si andavano ad accumulare nel cielo, rimanendovi immobili. Anche le incursioni aeree erano cessate; le lontane rampe di missili, da una parte come dall’altra, si erano azzittite quasi simultaneamente.

La vasta area delle operazioni belliche era avvolta dal silenzio uniforme e compresso. Silenzio terrificante più del precedente continuo boato delle esplosioni; dell’insostenibile frastuono della guerra. Paradossalmente gli altri tre erano scappati proprio a causa dell’inquietante silenzio, in esso ravvisando più acuto il sibilo della morte.

L’avamposto d’osservazione aveva diretto per mesi il tiro delle artiglierie, su tutto ciò che di nemico, in movimento o immobile, era captato dai suoi potenti cannocchiali elettronici, di giorno come di notte.

Gli occhi di guerra erano scesi di notte, paracadutati in territorio nemico, sulla Cima del Capro ed erano stati raggiunti da schegge di bombe di tutte le nazionalità, cadute a ridosso della postazione.

Inesorabilmente e lentamente quelle schegge avevano ridotto gli effettivi da dodici a quattro.

Di quei quattro "fortunati" era rimasto solo lui; restava non per eroismo o per senso del dovere, ma per paura.

Troppo silenzio, troppo vuoto, troppo di tutto lì intorno. Nel suo cannocchiale erano entrate le immagini di migliaia di corpi immobili, di mezzi, di città fumanti e contorte. Anche nelle retrovie "amiche" lo stesso spettacolo: morti, devastazioni, immobilismo, pietrificazione.

La gran paura era cominciata quando avevano visto i primi aerei, da una parte e dall’altra, venire giù, precipitare prima a decine poi a centinaia, su ogni traiettoria.

Cadevano non perché colpiti dai raggi della contraerea, ma come se non avessero più forza per volare.

La bianca scia dei reattori spariva e gli aerei cominciavano a precipitare in lunghissimi, irreversibili archi di cerchio terminanti nell’esplosione dell’impatto con la terra.

Molti dei piloti catapultati all’esterno scendevano lenti e immobili con il paracadute; toccavano terra e non si rialzavano. Non si sganciavano dal paracadute ma erano trascinati da esso come inanimi pupazzi.

Avevano visto i carri, i blindati, i camion di truppe proseguire la loro corsa senza mutare direzione di marcia, fino a cozzare fra di loro o contro ostacoli naturali; ribaltarsi nei fossi, prendere fuoco ed esplodere senza che alcun occupante saltasse fuori per cercare di mettersi in salvo.

Avevano comunicato le loro osservazioni, avevano atteso spiegazioni, nessuna risposta era tornata nell’etere; come se anche l’etere avesse smesso di esistere, come se nessuno esistesse più. Le colonne di sbandati civili, in marcia per ogni direzione, erano tutte ferme, per terra, immobili, pietrificate anch’esse.

Ed era stata la paura di quanto era successo "lì" a bloccarlo nella postazione, perché una cosa gli era chiara: lui era ancora vivo mentre tutt’intorno, per chilometri, fin dove arrivavano i potenti occhi di vetro, nulla si muoveva più.

La guerra era cessata insieme con ogni forma di vita. Non capiva la causa ma ne constatava gli effetti.
- Forse una nuova arma… un’arma totalmente "perfetta"… aveva eliminato tutti i contendenti… l’arma divenuta la sola padrona della situazione.

Ma fantasticare al peggio non gli sarebbe servito a nulla, meglio continuare a inviare messaggi, cercare segni di vita attraverso le vie satellitari. Aveva scandagliato tutte le frequenze, per giorni, fino ad esaurimento delle batterie. Gli rimaneva solo il fatto di essere ancora vivo senza sapere il perché.

Scrutava senza sosta con il cannocchiale, a trecentosessanta gradi, sperando che finisse il mortale silenzio, sperando di scoprire qualcosa in movimento, desiderando che quei morti laggiù si muovessero, si rialzassero e, finita la macabra rappresentazione, tornassero sul proscenio ad inchinarsi, a ricevere i suoi applausi.

Sprofondò nel terrore quando vide le verdi foglie degli alberi staccarsi dai rami e precipitare come sassi sulla terra. Tutta la vegetazione si schiacciò sulla terra, come sotto una gigantesca invisibile pressa, impastandosi con i corpi morti, con i contorti metalli dei mezzi di guerra. Anche le case, le città, le rocce, i monti e le acque, si schiacciarono comprimendosi fino a diventare piatta superficie.

Attorno a lui, fin dove poteva guardare, tutto era diventato piatto, compresso, materia uniformemente compattata. Ma nella postazione ciò non era avvenuto. Perché? Per mezzo chilometro attorno alla Cima del Capro tutto era rimasto normale.

- Un’isola… un’isola nell’incubo. Forse c’erano altre isole. Forse non era rimasto l’unico abitante del pianeta; doveva trovare il modo di scoprire le altre isole. Ma come? Il suo cannocchiale poteva scrutare fino all’orizzonte possibile, oltre la curvatura terrestre non poteva vedere. E fino all’orizzonte, fino alla curvatura terrestre, era tutto uniformemente appiattito, compattamente grigio.

Pianse come non aveva mai fatto nella sua vita. Nel pianto pensò ai suoi familiari, alla sua donna, ai suoi amici; si disperò e si disprezzò, si odiò e si fece pena.

Impazzito dal dolore si precipitò giù dalla postazione. Corse verso il confine dell’isola per gettarsi oltre, nel mare del nulla, dove tutto si era uniformato appiattendosi per tornare in tutto ciò che era stato, qualunque cosa fosse stata.

Raggiunse il fatale confine ma non ebbe il coraggio di superarlo. La paura della morte lo inginocchiò prima del nulla.
- Un vile! Il peggior vigliacco dell’universo… Vomitò per l’assurdità della sua imponderabile sorte e per la vergogna… era contento di essere vivo… Si distese a faccia in giù, annusò l’umido odore della sua isola, si attaccò ad essa penetrando la terra con le dita, continuò ad annusare intensamente.

Un coniglio selvatico si drizzò a spiarlo e si ritirò rapido nella tana, fra il verde del grano spontaneo. Calmatasi la paura si rimise in piedi, sul confine del nulla; riprese a scrutare con il cannocchiale. Sopra la curvatura terrestre captò un piccolo punto scuro, in lento movimento rotatorio nel cielo.

Con un balzo al cuore agì sul pulsante del comando elettronico e il piccolo punto s’ingrandì rivelandosi.
- Un uccello! Urlò eccitato. Un uccello girava lento sopra un punto oltre il nulla.

- Un’altra isola… se c’è un uccello nell’aria sotto ci deve essere un’isola… dei sopravvissuti… forse qualche donna fra loro… sì!… sì. Una quarantina di chilometri, calcolò, non tanti di più; una distanza ridicola, se non fosse per quel nulla fra lui e la prossima isola.

Ma ora si sentiva meno disperato, anzi… prese a guardarsi intorno, ad analizzare ogni dettaglio della sua isola, a considerare ogni suo aspetto, dall’erba alla spoglia sommità rocciosa sopra il boschetto, al telo mimetico che copriva la postazione.

Ora aveva una priorità, un compito da realizzare: trovare il modo di superare quel nulla, per ricongiungersi; il tempo non gli sarebbe mancato… gli altri, laggiù, avrebbero fatto la stessa cosa, n’era certo. Avrebbe costruito, come prima cosa, un aquilone da mandare molto in alto, per segnalare la sua posizione, la sua presenza. Si sarebbero ricongiunti. Avrebbero ricominciato. Questa volta nel modo giusto. Scartò quasi subito l’idea, meglio avvicinarli non visto, quando sarebbe stato possibile… non si poteva mai sapere.