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La Rondine, emozionante prova d’attore di Lucia Sardo e Luigi Tabita

Il Monastero dei Benedettini di Catania si è travestito da "teatro" per ospitare l’opera di Guillem Clua.

di Piero Buscemi - martedì 8 maggio 2018 - 9864 letture

Il pubblico disposto a semicerchio, su comode poltroncine. Sembra di stare dentro la scena, che si ha la fortuna di assistere. Nessun palcoscenico. Dentro un salone del Monastero, preso a prestito per dare vita ad una semplice scena familiare. Pochi mobili, uno sgabello, una poltroncina, un comodino, una credenza e due librerie. A dominare la scena un pianoforte a coda. E gli attori. Lucia Sardo e Luigi Tabita.

Il testo non è di quelli che rilassa la mente e concede particolari spazi di distrazione. Dalle prime battute, si è già dentro la storia. Come un breve racconto da leggere in uno spazio di tempo ben definito. Un’emozione in crescendo, che sale dal coccige, lentamente, su dalla schiena, toccando ogni millimetro di anatomia disposta a farsi conquistare dalle parole, i movimenti su quel bizzarro palcoscenico. I volti e le espressioni dei due protagonisti, così reali da credere di farne parte. Come se gli stessi astanti facciano parte di un unico stralcio di tempo, e spazio, e storia che ci appartiene.

Come la vicenda che prende forma, dal dialogo dei due attori. Due monologhi che si incrociano, si sostengono, si interscambiano, e poi si uniscono in un’unica entità recitativa che costringe a pensare, a riflettere, a sentire quel brivido gelido che trasloca dalla bocca degli attori ai sensi degli spettatori, rendendoli un poco più umani.

La piece teatrale di Guillem Clua, il drammaturgo spagnolo, prende spunto da un atto terroristico avvenuto il 26 giugno del 2016 al Bar Gay Pulse di Orlando(USA), nel quale morirono 49 persone. Non c’ è un chiaro riferimento durante l’interpretazione dei due attori. Ma è l’aggravante che pesa sulle coscienze di chi ascolta. Di chi è costretto a fermarsi a pensare alla drammaticità di un evento imprevisto che sconvolge la vita di centinaia di persone e, indirettamente, quella di milioni altre che si incollano alle televisioni per assorbirne le notizie dai telegiornali.

Il sottile confine tra l’essere spettatore o protagonista di un fatto sconvolgente del nostro quotidiano, è solo una questione di fatalità. O di culo, non ponderato. Lucia Sardo, madre di una delle vittime, chiude il guscio del proprio egoismo di falsa perfezione, malcelata da un’attività di insegnante di canto. Matteo, l’allievo che si rivolge a lei per imparare ad interpretare una canzone che sarà utilizzata ad una cerimonia di ricordo delle vittime, nei prossimi giorni.

Si apre un mondo di convenzionalità di circostanza. Un quieto vivere che è metafora di abnegazione assoluta di una verità scomoda. L’omosessualità del figlio, negata davanti ad ogni qualsiasi evidenza. E una domanda che non può trovare una risposta assoluta. Se la pongono i due protagonisti, in ogni attimo, in ogni parola sofferta, nostalgica, incazzata e rassegnata. Ed è rivolta indirettamente agli astanti. A quelli presenti e a quelli rifugiati nelle proprie case. Qual è il sentimento che cattura l’anima davanti alla perdita di una vita che, nel ricordo di una foto, di un episodio condiviso, di uno scazzato dialogo che sfocia in litigio, merita di essere coltivato?

Convincenti e coinvolgenti, Lucia Sardo e Luigi Tabita. Veri, come le nostre vite rinnegate. Crudi, come le domande glissate della nostra ipocrisia. Umani, come una speranza alla quale aggrapparci per credere che valga ancora la pena viverla.

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