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L’Etna e Pasolini

Il vulcano siciliano rappresentato dal regista/scrittore/poeta friulano in ben quattro dei suoi film

di Orazio Leotta - martedì 29 ottobre 2013 - 7059 letture

Non solo i celebri Sassi di Matera fecero da sfondo alle prove che Gesù adulto dovette affrontare ne “Il Vangelo Secondo Matteo” del 1964, ma anche il vulcano siciliano, di cui Pasolini era letteralmente affascinato; egli attribuiva all’Etna veduta dell\'Etna in Teorema non soltanto un’ineguagliabile bellezza naturalistica, scarna ma imponente come un paesaggio lunare, ma anche un significato atavico, intriso di rimandi storici e mitologici, diremmo ancestrale.

L’uomo è nudo sull’Etna, nel senso che se in condizioni normali potrebbe riuscire a mentire perfino a se stesso, non può più farlo ai piedi del vulcano ove non può sfuggire nemmeno a sé stesso, inchiodato alla sua coscienza, alle sue responsabilità, al suo subconscio. Un luogo che fu dimora di Efesto, di riti sacrificali, di leggende omeriche, un luogo ove aleggia una cappa di mistero misto a orrore e inquietudine, ove si confessano e si mettono a nudo man mano i personaggi dei film in questione di Pasolini.

In “Teorema” il vulcano è ammantato di spiritualità; là e soltanto là, si può scavare all’interno della propria anima e interrogarsi se la vita di città, delle fabbriche o quella all’interno della chiesa o della famiglia, rappresenta davvero l’agognato benessere o è invece una falsa felicità che stride al cospetto della nudità verginale del paesaggio primitivo dal sapore religioso-ancestrale.

In “Porcile” (1969) una sequenza di Porcile Pasolini torna sull’Etna ove spedisce il protagonista del film in fuga dall’orrore della presunta civiltà moderna intrisa di magagne pronte ad esplodere i cui effetti dirompenti si vedranno anni e anni più tardi. La nudità del paesaggio fa il pari con la nudità (in tutti i sensi, esteriore e interiore) dell’uomo che, commessa una grave atrocità (episodio del cannibalismo), frutto dell’alienazione dei tempi, raggiunge la sacralità e la bellezza primitiva dell’Etna come necessità di ricongiungersi all’arcaico e al primordiale: il presente e il futuro sono terribili, meglio sarebbe ripartire da zero.

“Devi venire con me. Andiamo a visitare l’inferno. E’ stato deciso così dove si può ciò che si vuole”: con queste ed altre parole l’Angelo annunciatore affacciatosi alla finestra di una casa ove un avido fraticello cerca di convincere un uomo in fin di vita a donare al convento tutte le sue ricchezze, convoca il fraticello stesso all’inferno. Accade nell’ottavo capitolo de “I Racconti di Canterbury” (1972), ove schiere di dannati sfilano davanti a demoni che giocano a morra e sbeffeggiano il frate. Location dell’inferno è l’Etna, sullo sfondo il fumo nero di un’eruzione in corso.

Sulla “montagna”, come viene affettuosamente chiamata dalla gente del luogo, non c’è più Dio, non si medita, non c’è spiritualità e non vengono cercate le radici del proprio passato; adesso è terra del demonio che sputa frati a colpi di scorregge. Una parabola dai tratti altamente pessimistici oppure il sardonico sorriso finale del Pasolini-Geoffrey Chaucer è da leggere come un “repulisti” necessario?


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