Il sogno (1821), di G. Leopardi

di Redazione Antenati - giovedì 6 gennaio 2005 - 7811 letture

Era il mattino, e tra le chiuse imposte

per lo balcone insinuava il sole

nella mia cieca stanza il primo albore;

quando in sul tempo che piú leve il sonno

e piú soave le pupille adombra,

stettemi allato e riguardommi in viso

il simulacro di colei che amore

prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.

Morta non mi parea, ma trista, e quale

degl’infelici è la sembianza. Al capo

appressommi la destra, e sospirando,

vivi, mi disse, e ricordanza alcuna

serbi di noi? Donde, risposi, e come

vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto

di te mi dolse e duol: né mi credea

che risaper tu lo dovessi; e questo

facea piú sconsolato il dolor mio.

Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta?

Io n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne?

Sei tu quella di prima? E che ti strugge

internamente? Obblivione ingombra

i tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;

disse colei. Son morta, e mi vedesti

l’ultima volta, or son piú lune. Immensa

doglia m’oppresse a queste voci il petto.

Ella seguí: nel fior degli anni estinta,

quand’è il viver piú dolce, e pria che il core

certo si renda com’è tutta indarno

l’umana speme. A desiar colei

che d’ogni affanno il tragge, ha poco andare

l’egro mortal; ma sconsolata arriva

la morte ai giovanetti, e duro è il fato

di quella speme che sotterra è spenta.

Vano è saper quel che natura asconde

agl’inesperti della vita, e molto

all’immatura sapienza il cieco

dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,

taci, taci, diss’io, che tu mi schianti

con questi detti il cor. Dunque sei morta,

o mia diletta, ed io son vivo, ed era

pur fisso in ciel che quei sudori estremi

cotesta cara e tenerella salma

provar dovesse, a me restasse intera

questa misera spoglia? Oh quante volte

in ripensar che piú non vivi, e mai

non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo,

creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa

che morte s’addimanda? Oggi per prova

intenderlo potessi, e il capo inerme

agli atroci del fato odii sottrarre.

Giovane son, ma si consuma e perde

la giovanezza mia come vecchiezza;

la qual pavento, e pur m’è lunge assai.

Ma poco da vecchiezza si discorda

il fior dell’età mia. Nascemmo al pianto,

disse, ambedue; felicità non rise

al viver nostro; e dilettossi il cielo

de’ nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,

soggiunsi, e di pallor velato il viso

per la tua dipartita, e se d’angoscia

porto gravido il cor; dimmi: d’amore

favilla alcuna, o di pietà, giammai

verso il misero amante il cor t’assalse

mentre vivesti? Io disperando allora

e sperando traea le notti e i giorni;

oggi nel vano dubitar si stanca

la mente mia. Che se una volta sola

dolor ti strinse di mia negra vita,

non mel celar, ti prego, e mi soccorra

la rimembranza or che il futuro è tolto

ai nostri giorni. E quella: ti conforta,

o sventurato. Io di pietade avara

non ti fui mentre vissi, ed or non sono,

che fui misera anch’io. Non far querela

di questa infelicissima fanciulla.

Per le sventure nostre, e per l’amore

che mi strugge, esclamai; per lo diletto

nome di giovanezza e la perduta

speme dei nostri dí, concedi, o cara,

che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto

soave e tristo, la porgeva. Or mentre

di baci la ricopro, e d’affannosa

dolcezza palpitando all’anelante

seno la stringo, di sudore il volto

ferveva e il petto, nelle fauci stava

la voce, al guardo traballava il giorno.

Quando colei teneramente affissi

gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,

disse, che di beltà son fatta ignuda?

E tu d’amore, o sfortunato, indarno

ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.

Nostre misere menti e nostre salme

son disgiunte in eterno. A me non vivi

e mai piú non vivrai: già ruppe il fato

la fe che mi giurasti. Allor d’angoscia

gridar volendo, e spasimando, e pregne

di sconsolato pianto le pupille,

dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi

pur mi restava, e nell’incerto raggio

del Sol vederla io mi credeva ancora.

G. Leopardi, Del fingere poetando un sogno (l820)

Se tu devi poetando fingere un sogno, dove tu o altri veda un defonto amato, massime poco dopo la sua morte, fa che il sognante si sforzi di mostrargli il dolore che ha provato per la sua disgrazia. Cosí accade vegliando, che ci tormenta il desiderio di far conoscere all’oggetto amato il nostro dolore; la disperazione di non poterlo; e lo spasimo di non averglielo mostrato abbastanza in vita. Cosí accade sognando, che quell’oggetto ci par vivo bensí, ma come in uno stato violento; e noi lo consideriamo come sventuratissimo, degno dell’ultima compassione, e oppresso da una somma sventura, cioè la morte; ma noi non lo comprendiamo bene allora, perché non sappiamo accordare la sua morte con la sua presenza. Ma gli parliamo piangendo, con dolore, e la sua vista e il suo colloquio c’intenerisce, e impietosisce, come di persona che soffra, e non sappiamo, se non confusamente, che cosa. (3 Dicembre l820) .

(G. Leopardi, Canti, Newton Compton, Roma, l996, pagg. 93-l03, 287)


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