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Il problema della modernizzazione

Un Paese si pone sempre tale problema, ovvero come riuscire a stare al mondo, mentre il mondo muta - e dovendo competere e coesistere con un mondo fatto di Paesi molto più forti...

di Sergej - mercoledì 22 maggio 2019 - 2256 letture

Il problema della modernizzazione. Un Paese si pone sempre tale problema, ovvero come riuscire a stare al mondo, mentre il mondo muta - e dovendo competere e coesistere con un mondo fatto di Paesi molto più forti di noi, e che hanno tutto l’interesse a che tu sia eliminato o quantomeno indebolito. Insomma, è una lotta “competitiva” (finquando non si passa alle armi). Il nostro Paese ha affrontato il problema della modernizzazione in vari modi. Per comodità sociologica analizziamo i vari periodi scandendoli per ventennio.

Senza andare troppo lontani nel tempo (la modernizzazione in stile fascista e autoritarista, sfociata con una guerra che mostrò come proprio sul campo della modernizzazione il nostro Paese era decisamente indietro, e scoprire questo ci è costato un bel po’ di morti fame e distruzioni). Il ventennio berlusconiano-prodiano si è basato sulla dicotomia tra una Parte A che tendeva al mantenimento dello status quo (con una leggera propensione a difendere ed espandere gli interessi personali del premier), e una Parte B interessata alla difesa di alcuni interessi regionali (Toscana, Emilia Romagna, Umbria: le proprie zone elettorali) ma anche a interpretare la modernizzazione come impossibilità di una modernizzazione: di qui la scelta di voler incardinare l’Italia all’Europa, nella speranza che la maggiore forza dell’Europa potesse costringere l’Italia a effettuare quelle modernizzazioni che da sola l’Italia non era capace di effettuare. Si pensi alla sollevazione dei tassisti, quando il ministro Bersani provò a cambiare alcune regole in quel settore. Vi era una Italia sostanzialmente impaludata, in cui qualsiasi cambiamento era impossibile (a meno che le varie categorie non riuscissero a capirle o intenderne la portata nel lungo periodo). In questo quadro, anche quando si riusciva a tappare i buchi e “rimettere in cammino l’economia”, ci si accorgeva che nel frattempo i Paesi vicini “viaggiavano in auto”, cioè c’era una discrepanza tra la nostra economia e quella dei vicini europei che significava una sostanziale stagnazione del nostro Paese, dunque un arretramento rispetto al resto dell’Europa.

L’Italia aveva trovato il modo di essere fiscalmente competitiva rispetto agli altri Paesi, facendo diventare elusione ed evasione fiscale un cardine della propria politica economica. In cambio, i ceti capitalistici avrebbero dovuto investire nelle proprie industrie; cosa che non è avvenuto - almeno non nel ventennio berlusconiano-prodiano ovvero nel ventennio che è seguito allo smantellamento dell’economia statalista in Italia (l’intervento dello Stato nell’economia, vista l’arretratezza economica italiano ovvero l’incapacità del ceto capitalistico italiano di creare industria competitiva).

Con la fine dell’economia tessile, l’Italia ha avuto il problema di quale economia impiantare e come convertire la precedente “vocazione” di mercato. A questo problema il ventennio berlusconiano-prodiano non ha trovato una risposta. Ha rinviato la soluzione dei problemi al ventennio successivo (in questa chiave vanno letti gran parte dei “provvedimenti” economici di questo ventennio).

L’Italia è entrata nel decennio della recessione del 2008-2018 già in fase di stagnazione, e con un Paese strutturalmente incapace di muoversi. Non mi sembra che il ventennio successivo abbia trovato soluzione al problema della modernizzazione del Paese.



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