Il nemico principale

di Alberto Giovanni Biuso - venerdì 13 febbraio 2009 - 2381 letture

«Ci troviamo in una società che pensa che niente sia peggio della morte, e soprattutto non la schiavitù. L’inconveniente è che questo tipo di società finisce sempre per morire. Dopo esser stata ridotta in schiavitù».

Questo scriveva Alain de Benoist in un saggio dal titolo Il nemico principale , pubblicato venticinque anni orsono. L’occasione era rappresentata dalla sconfitta della maggioranza gollista alle elezioni presidenziali francesi del 1981, con l’arrivo di François Mitterrand all’Eliseo. Ma l’analisi contenuta in quel testo andava molto oltre l’occasione e il momento. De Benoist coglieva alcune dinamiche di fondo della politica mondiale e -soprattutto- individuava con chiarezza «il nemico principale (...) il liberalismo borghese, l’ “Occidente” atlantico-americano, di cui la socialdemocrazia europea non è che uno dei più pericolosi succedanei».

Opportunamente, quindi, Trasgressioni. Rivista quadrimestrale di cultura politica ripubblica quel testo (nel numero 47, Maggio-Dicembre 2008, pp. 81-131), che se appare datato per quanto riguarda le dinamiche dell’Unione Sovietica, nel frattempo dissolta, per il resto -e cioè nelle fondamenta ideologiche e nella previsione del divenire dell’Europa- si mostra ancora di grande significato. E anzi, per taluni aspetti, persino profetico. Il dato storico e geopolitico di partenza è che «l’Europa non può essere confusa con “l’Occidente”» poiché se quest’ultimo si dispiega dagli Stati Uniti sino a Israele -e ormai oltre- «i suoi interessi non sono i nostri». Una prova sta nel fatto che l’Europa è stata occupata tutta intera a partire dalla fine della II Guerra mondiale, «occupata militarmente e ideologicamente ad Est, economicamente e culturalmente ad Ovest». È anche per questo che dopo la fine dell’URSS non ha vinto “la libertà” ma la colonizzazione statunitense di quella parte del Continente che sino al 1991 le era sottratta.

Nelle società complesse e tecnologiche lo strumento del dominio non sono i carri armati ma è la televisione. La vera egemonia -Gramsci aveva perfettamente ragione- è culturale, prima che politica e, ancor più, economica: «nessun potere può durare, neppure se è repressivo (e a maggior ragione quando è liberale), se non beneficia del consenso implicito che soltanto un accordo profondo fra i valori da esso incarnati e quelli ai quali aderisce la maggioranza dei componenti la società gli può conferire». Nella «dittatura dei media» «quel che è più importante non è il telegiornale, ma ciò che viene dopo», verità che il caso italiano ha confermato in modo clamoroso, con un tycoon della televisione diventato il capo assoluto della Nazione col determinante contributo di pubblicitari, presentatori e grandi fratelli; con la creazione dunque di una mentalità collettiva favorevole al suo vuoto culturale. A tale dominio, l’opposizione parlamentare italiana -come quella francese al tempo di Mitterrand- oppone dei patetici richiami al “dialogo” e alla “neutralità” dei valori (emblematica e gravissima la posizione del Partito Democratico sul testamento biologico), forme entrambe dell’impotenza politica perché la neutralità fa sempre il gioco di quanti non sono neutrali. È vero dunque che «i governi, sul lungo periodo, sono i riflessi dei popoli che dirigono. I popoli, sul lungo periodo, hanno i governi che si meritano» e oggi l’Europa sembra una società “decomposta” (Castoriadis). Il ritratto che ne faceva decenni fa de Benoist sembra, in particolare, quello dell’Italia contemporanea:

«La politica ridotta al ruolo di servizio dopolavoristico o di messa in pratica delle decisioni adottate dal “posto di comando” economico, l’esercito trasformato in ausiliario della polizia, lo Stato in “metronotte”, la politica estera in “relazioni internazionali”, i dirigenti in “gestori”, le nazioni in mercato: ecco dove siamo arrivati nella sfera liberale -ove i membri della società generalmente non hanno altra risorsa se non quella di somatizzare, coscientemente o no, quelle malattie “di civiltà”, conseguenze della rimozione psicologica e sociale, che sono la violenza, la delinquenza e la droga».

Una società che dissolve memorie e identità, che non sa progettare qualcosa di diverso dallo “sviluppo” inevitabile dell’economia, che spegne ogni passione non utilitaristica. Manca il senso, in una parola. Quel senso che nessuna opulenza può donare, quel vuoto di destino che nessuna abbondanza può colmare. La conclusione del saggio voleva essere uno scongiuro è invece si è rivelata una profezia. Sta anche qui il buio del presente:

«Taluni non si rassegnano all’idea di dover portare un giorno il berretto dell’Armata rossa. In effetti, è una prospettiva orribile. Ma non per questo possiamo sopportare l’idea di dover un giorno passare quel che ci resterà da vivere mangiando hamburgers dalle parti di Brooklyn».

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