I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Pippo Fava
Quello che qui si ripubblica ancora una volta è un indimenticabile articolo di Giuseppe Fava, I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, pubblicato originariamente nella rivista "I Siciliani", n. 1, nel gennaio 1983. Un anno dopo Giuseppe Fava fu assassinato dalla mafia.
di
Sergej
- domenica 4 gennaio 2004
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Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi effettivamente
siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e spaventati
spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la
nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia
negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i
politici. E per meglio intendere tutto bisogna prima capire e identificare
le prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e però
mai annoiante, poiché continuamente vedremo balzare innanzi, come su
un’immensa ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso
(Pirandello è qui di casa) nel gioco delle parti.
Negli anni ottanta le prede della mafia si dividono in due categorie
perfettamente separate che trovano punti di contatto soltanto in alcune
fatali complicità organizzative. L’una categoria raggruppa tutte le
tradizionali vocazioni criminali volte al taglieggiamento dell’economia, i
cosiddetti "racket", che controllano quasi tutte le attività economiche di
una grande città: i mercati generali; le concessionarie di prodotti
industriali, auto, elettrodomestici, televisori; negozi, teatri, alberghi,
night; e su ogni attività impongono una taglia, una specie di tassa che
l’operatore economico è costretto a pagare se non vuole correre il rischio
di vede bruciare la propria azienda, o vedersi sciancato da alcune
revolverate. In taluni casi d’essere ucciso.
Si tratta di un giro di centinaia o migliaia di miliardi, però frantumati e
dispersi in un’infinità di rivoli e canali. Un apparato mafioso che
lentamente, inesorabilmente ha risalito la penisola inquinando anche le
grandi città del nord, oramai da anni anch’esse violentate da sparatorie,
stragi, violenze dalle quali emergono sempre volti e nomi di criminali
emigrati dalla Sicilia, da Napoli, dalla Calabria. E’ la mafia cosiddetta
dei manovali, senza vertici, continuamente sconvolta da una battaglia
interna per il predominio in un quartiere o un settore.
Basta che un racket tenti di invadere il territorio di un altro, o cerchi
di imporre estorsioni in un diverso settore economico, e lo scontro è
fatale. Sempre mortale. Dura sei mesi, un anno, una fiamma di odio che
insanguina un quartiere, a volte percorre anche il territorio della nazione
da una grande città all’altra, Catania, Napoli, Milano, Torino, laddove i
rackets in lotta cercano disperatamente alleanze e armi, spesso tra
consanguinei, amici, parenti, fratelli. Una caratteristica di questa mafia
è infatti la presenza costante della famiglia, cioè del rapporto di
parentela fra molti membri dello stesso clan. Un giudice milanese ebbe a
dire, forse senza nemmeno voler essere cinico: "Una buona famiglia
meridionale all’antica, in cui sono ancora molto forti i sentimenti
tradizionali della famiglia, può costruire un racket mafioso di tutto
rispetto. E’ più temuta!". Questo spiega anche talune agghiaccianti
efferatezze dello scontro, vittime legate piedi e collo con un filo
elettrico in modo che lo sventurato lentamente si autostrangoli, organi
genitali resecati e infilati in bocca, teste mozzate e depositate dinnanzi
all’uscio di casa. Una crudeltà che scaturisce dall’odio definitivo di chi
ha visto cadere per mano avversa il padre, il figlio, il fratello. Lo
scontro non ha possibilità di pace, di armistizio, nemmeno di compromesso e
spesso dura mortalmente fino al fatale annientamento del clan avverso,
dovunque abbia trovato scampo lo sconfitto o il superstite. La vendetta lo
perseguiterà fino nella più profonda cella di carcere.
E’ la mafia che miete la quasi totalità delle vittime, centinaia, forse
migliaia ogni anno in tutte le città della Sicilia e dell’Italia. Quasi
tutte le vittime sono anch’esse creature criminali, o loro complici,
talvolta anche avvocati, medici, funzionari, insospettabili burocrati o
professionisti che in un modo o nell’altro si sono lasciati adescare e
sottomettere da un racket mafioso. Al momento in cui quel racket entra in
guerra cadono anche le loro teste. E’ una malia che sembra animata da una
tragica vocazione al suicidio e tuttavia continuamente si rinnova, una
specie di fetida tenia oramai intanato nel ventre della nazione, dove si
ingrassa, ininterrottamente divora se stesso e ricresce. Sociologicamente
sarebbe forse più esatto definirlo gangsterismo ma, come ora vedremo, esso
è però, mortalmente, indissolubilmente legato, proprio in un rapporto fra
manovalanza e ingegneria, al grande fenomeno mafioso.
E qui c’è il salto di qualità, diremmo di cultura criminale, fra le prede
mafiose tradizionali di base, mercati, estorsioni, sequestri di persona e
le nuove grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto
della mafia una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono
essenzialmente due: il denaro pubblico e la droga. Il distacco è
vertiginoso. E’ come se un grande corpo, un grande animale, lo Stato
italiano, mai morto e continuamente in agonia, fosse divorato ancora da
vivo. In basso c’è un brulicare orrendo di vermi insanguinati, in alto un
rapace con il profilo misterioso e terribile dei mostri di Bosch, e gli
artigli piantati nel cuore della vittima. Non riesco a trovare un paragone
più amabile ed egualmente preciso.
La droga anzitutto. Essa costituisce uno degli affari mondiali, come il
petrolio o il mercato delle armi. La valutazione globale degli interessi
che la droga coinvolge si può fare solo nell’ordine di decine di migliaia
di miliardi. La contaminazione del vizio oramai è intercontinentale,
dall’Asia all’Africa, all’Europa, alle due Americhe. I guadagni sono
incalcolabili. Si calcola che ci siano al mondo circa cento milioni di
persone, molte oramai tossicodipendenti, che fanno quotidianamente uso
della droga, spendendo ciascuna in media (ma la valutazione forse è troppo
esigua) circa diecimila lire al giorno. Sono mille miliardi. Quasi
quattrocentomila miliardi l’anno. Una cifra che fa paura. Molto più alta
del bilancio di una grande nazione industriale. I guadagni sono anch’essi
incalcolabili. Secondo gli studi attuali un quantitativo di cocaina,
acquistata alle fonti di produzione per poco più di un milione, dopo la
raffinazione può valere sul mercato da due a tre miliardi, secondo la
purezza del prodotto.
E non basta la semplice e pur stupefacente valutazione economica per capire
appieno la imponenza del fenomeno-droga su scala mondiale, un evento
quotidiano che minaccia di deformare la società contemporanea. Ogni anno
centomila esseri umani, per lo più giovani o addirittura adolescenti e
ragazzi, muoiono per causa della droga; almeno nove o dieci milioni
diventano irrecuperabili alla vita sociale, sia per la loro definitiva
incapacità intellettuale o inettitudine fisica al lavoro, sia per la loro
costante pericolosità, cioè la disponibilità a qualsiasi proposta
criminale. Milioni di famiglie vengono praticamente distrutte poiché quasi
sempre, accanto alla pietosa tragedia del ragazzo drogato, c’è la
infelicità di un intero gruppo umano, i genitori, i fratelli, la moglie,
per i quali il recupero -spesso impossibile- del congiunto diventa una
costante di dolore e disperazione.
La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali della
nostra società, la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si
stanno trasformando in luogo di autentico contagio. Punti fermi della
grande struttura civile collettiva vengono così destabilizzati, ed è tutta
la struttura che comincia a vacillare. La stessa lotta quotidiana a livello
internazionale contro la droga, esige un prezzo che diventa sempre più
insostenibile; migliaia di giornate lavorative perdute, migliaia di uomini,
magistrati, studiosi, poliziotti, medici, mobilitati costantemente per
arginare l’avanzata della droga; migliaia di miliardi spesi, talvolta
sperperati, per tenere in vita ospedali, centri di emergenza, istituti e
cliniche di recupero umano e sociale. E su tutto questo oceano, sporco e
insanguinato di denaro, che scorre ininterrottamente da un continente
all’altro, l’ombra invulnerabile della mafia.
Da dieci anni la mafia tiene nel pugno l’immenso affare. Dapprima nelle
grandi capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo,
Istambul, la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora
definitivamente anche in Sicilia. L’isola è nel cuore del Mediterraneo e
quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento dei traffici
dall’area afroasiatica verso le grandi nazioni dell’occidente. Per qualche
tempo in Sicilia la mafia si è limitata a controllare questo passaggio,
garantendo punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidità in qualsiasi
operazione ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica automobili
e le affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente dai
concessionari perché possano svolgere il lavoro senza rischi, ma la mafia
non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni,
incredibilmente, la mafia si comportò allo stesso modo per la droga.
Guardava, osservava, valutava, studiava, proteggeva, copriva, incassava la
sua tangente, faceva i conti, cercava di capire perfettamente
l’ingranaggio. Forse c’era una residua repugnanza morale (siamo in Sicilia
dove ogni paradosso psicologico è possibile) verso un affare che era
portatore di morte e dolore per un’infinità di esseri umani, soprattutto
giovani. Ma anche senza complicità mafiosa la droga avrebbe viaggiato lo
stesso per tutta la terra. E alla fine i calcoli furono perfetti e
abbaglianti, e l’ultima repugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio
il traffico, anche in Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando
qualsiasi concorrente e aggiudicandosi tutto il ciclo completo di mercato:
la ricerca alle fonti di produzione, la creazione di stabilimenti segreti
per la raffinazione della droga e la spedizione nelle grandi capitali
dell’occidente. In quell’attimo compì un salto di cultura criminale che
avrebbe fatto tremare l’Italia.
Migliaia, decine di migliaia di miliardi, una montagna, un fiume
travolgente, una tempesta, un mare di denaro che arriva da tutte le parti,
che si rinnova e cresce continuamente. Via via perfezionandosi negli anni,
mettendo radici sempre più profonde, integrando gradualmente e infine
totalmente anche camorra napoletana e ’ndrangheta calabrese, coinvolgendo
definitivamente una massa di uomini sempre più vasta, la mafia ha creato
una struttura criminale che, per le sue proporzioni e per il suo distacco
da quella che è la logica comune, appare quasi un congegno di fantascienza.
In verità molte componenti di questa struttura si sono determinate quasi
per forza di cose, per la concatenazione fatale di un gioco d’interessi, ma
c’è voluta indubbiamente una grande capacità di fantasia per intuire questa
forza delle cose e questa concatenazione d’interessi e costruirle insieme
in un perfetto mosaico. Va detto che la mafia del nostro tempo ha genio.
Anche il demonio ha genio. Negarlo sarebbe diminuire il merito di
Domineddio.
Questa struttura ha tre livelli, indipendenti, talvolta quasi sconosciuti
l’uno all’altro, eppure completamente fusi in un identico fenomeno.
Cominciamo dal basso. Il livello più propriamente criminale: gli
specialisti dell’assassinio.
Centinaia di migliaia di miliardi abbiamo detto. Per gestire valori
economici così imponenti, legati all’impunità della produzione e del
traffico di migliaia di tonnellate di droga è indispensabile un controllo
costente e totale del territorio di traffico. Non ci deve essere un
ostacolo, un rischio, una trappola. E’ necessaria quindi una folla di
complicità dovunque, in ogni settore della società, criminali comuni,
impiegati del fisco, piccoli armatori marittimi, dipendenti delle linee
aeree, funzionari dello stato, probabilmente anche funzionari di polizia,
magistrati, ufficiali di finanza, amministratori di enti locali, sindaci,
assessori. Tutti costoro stanno al livello che abbiamo detto della
manovalanza criminale, ognuno pagato e ricattato per suo conto, all’interno
di un gruppo che garantisce il dominio di un piccolo territorio o quartiere
della città.
Solo alcuni di loro gestiscono la droga, ognuno però con piccoli compiti,
avvolti, protetti, nascosti dal clan, ed ogni clan a sua volta con la
funzione soltanto di garantire il territorio. Ogni tanto taluno di questi
gruppo si scontra con un altro per il predominio su un territorio e allora
accade l’ecatombe, trenta, quaranta assassinii finché un gruppo viene
sterminato e la supremazia criminale affermata. La strage terrificante fra
i clan catanesi dei Santapaola e dei Ferlito, conclusa con l’assassinio di
Alfio Ferlito, assieme ai tre carabinieri che lo accompagnavano nel
trasferimento dal carcere di Enna a quello di Trapani, rappresenta una
delle battaglie più feroci per aggiudicarsi la supremazia in una grande
area metropolitana. Gli spettacolari assassinii di Stefano Bontade e
Gaetano Inzerillo a Palermo, epilogo spettacolare di una catena di
cinquanta omicidi, sono stati un altro momento di questa lotta che ha visto
la sanguinosa vittoria del clan dei Greco e dei Marchese. Ma anche i
vincenti, i padroni del clan, sono poco più di subappaltatori dell’immenso
palinsesto mafioso: governano l’impresa criminale su una zona, conoscono
alcune segrete strade della corruzione, sono ammessi in alcune anticamere
del potere. La loro autentica forza è la capacità di uccidere, disporre di
trenta, quaranta individui che sanno maneggiare tutte le armi più micidiali
e all’occorrenza poter contare sulla loro devozione e infallibilità.
Capimastri, non di più! Governano la loro parte di cantiere ma non sono mai
entrati nella stanza dei progetti.
Molto più in alto dei cosiddetti uccisori c’è il livello dei pensatori, con
la lontananza, il distacco di autorità che può esserci tra una fanteria
alla quale è affidato soltanto il compito di conquistare, uccidere,
presidiare, morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore dove
si elabora la grande strategia mafiosa. Scopo unico e massimo di questa
strategia è la riciclazione del denaro continuamente prodotto
dall’operazione droga, cioè la fase ultima e più delicata, quella appunto
che esige una autentica capacità tecnica e finanziaria. Si tratta infatti
di centinaia e migliaia di miliardi che, per essere immessi nel mercato
economico e diventare usufruibili, debbono passare attraverso una serie di
operazioni legali che li assorbano e magicamente li riproducano come
ricchezza. Ci vuole talento, ci vuole fantasia, competenza tecnica. Non a
caso abbiamo parlato di un salto nella cultura mafiosa.
Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese
economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno proprio, lo
celano, lo amministrano, conservano, proteggono, reimpiegano (cento
miliardi provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di persone
miseramente morte o uccise, e migliaia di infelicità umane, possono essere
impiegati per la costruzione di un grattacielo, un ponte, una diga,
un’autostrada). Le banche gestite e controllate dallo stato difficilmente
potrebbero (ma non è detto che non possano) poiché c’è sempre il rischio di
un funzionario di vertice che indaga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le
banche private. Talune banche private ovviamente. Non a caso Sindona aveva
la vocazione di creare banche, ne aveva l’estro, la fantasia. Il giorno in
cui dovesse decidere di raccontare finalmente tutta la verità, molti imperi
finanziari vacillerebbero. E in realtà Sindona, invecchiato, gracile,
stanco, terrorizzato, preferisce starsene in un tiepido carcere americano.
All’aria aperta, in libertà, non avrebbe certamente più di un giorno di
vita! Per decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante
sapere appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento,
per cui riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca
d’Italia, Michele Sindona, piccolo ragioniere di provincia, riuscì in meno
di quindici anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche
che fiorivano, si moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle grandi
città e nei centri di periferia dove per gestire gli affari economici, i
micragnosi affari della piccola borghesia commerciale e agricola sarebbe
stata già d’avanzo un’agenzia del Banco di Sicilia. Banche invece che
spalancavano di colpo i battenti: "Eccomi qua, io sono la nuova banca! A
disposizione!", tutto l’apparato già pronto, direttori, impiegati,
casseforti, banchi di metallo, sistemi elettronici, computerizzazione,
vetri antiproiettile, uscieri, gorilla con la divisa di sceriffo e la Smith
Wesson, epiche cerimonie inaugurali con interventi di parlamentari,
sottosegretari, ministri, questori, prefetti, "Taglia il nastro la gentile
signora di sua eccellenza", fiori, applausi, banchetto, champagne, capitali
già depositati nelle casseforti.
Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di
Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice
milanese dette incarico a un famoso commercialista, l’avvocato Ambrosoli,
di venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista principe ma
molto ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che
potesse venire in Sicilia gli fecero la pelle. Da allora non ha tentato più
nessuno.
In verità c’era stato un primo lontanissimo botto che avrebbe dovuto far
trasalire la nazione e invece parve soprattutto una cosa da ridere: quando
un cocciuto magistrato palermitano scoprì che il senatore democristiano
Verzotto, per anni segretario regionale del partito e presidente dell’Ente
minerario siciliano aveva versato centinaia di milioni di fondi neri e
diversi miliardi dello stesso ente minerario presso la filiale di una delle
banche di Sindona e ne percepiva clandestinamente gli interessi. Che la
vicenda avesse indotto più all’ironia che allo spavento, dipese
probabilmente dalla sagoma del protagonista, il nominato senatore Verzotto.
Alto, imponente, ridente, capelli grigi, taglio impeccabile del vestito,
grande sigaro in bocca, cappotto di pelo di cammello svolazzante sulle
spalle, sembrava anche visivamente il personaggio perfetto per una pochade
politica più che per una tragedia mafiosa. Invece fin d’allora si sarebbe
dovuto intuire da quali altre e ben più profonde oscurità arrivavano i
capitali per le banche di Sindona e dei suoi alleati, e come esse
servissero soprattutto alla riciclazione di una massa enorme di denaro che
non si sarebbe potuta altrimenti impiegare. Lo spiraglio aperto da un
giudice coraggioso e tenace avrebbe dovuto spalancare la strada invece esso
venne precipitosamente sbarrato. Incredibilmente nemmeno ai vertici della
banca di stato, che dovrebbe controllare tutto il movimento del denaro sul
territorio nazionale, valutandone origini e destinazione, venne presa
alcuna iniziativa sulle banche che stavano proliferando nel sud. Nemmeno il
governo del tempo ed i ministri finanziari batterono ciglio. Tutti
arretrarono di qualche passo per prendere le distanze, a spintoni e calci
venne fatto avanzare il solo tuonitonante Verzotto, il quale infatti rimase
solo alla ribalta, perché l’opinione pubblica potesse farci in conclusione
una bella risata di scherno.
Verzotto veniva dalla scuola di Enrico Mattei, il più sottile cervello
politico italiano del dopoguerra, ma non gli rassomigliava in niente;
quanto quello era ansimante, frettoloso, sciatto, ruvido ma geniale, tanto
Verzotto era invece calmo, opimo, quasi regale, elegante cortese e,
probabilmente, anche un po’ minchione. Per la magniloquenza del suo tratto
era uno di quei personaggi capaci di procurare grandi catastrofi con
perfetta noncuranza e senza probabilmente rendersene conto. Tuttavia dal
suo esilio di Beirut, dove ebbe l’agilità di scappare una settimana prima
dell’ordine di cattura, disse una cosa significativa: "Come potete pensare
che io vada a sporcarmi le mani per un semplice affare di poche centinaia
di milioni di interessi, quando in una banca si possono manovrare invece
interessi per centinaia di miliardi!". Tutti pensarono alla malinconica
battuta di uno sconfitto. Del senatore Verzotto si sono perdute le tracce.
Anzitutto banche, dunque! Talune banche, naturalmente. Che noi non
conosciamo e che però il potere politico e i vertici finanziari dello stato
dovrebbero ben conoscere. Ma le banche possono ricevere il denaro nero,
sotterrarlo nei propri forzieri, nasconderlo, mimetizzarlo, far perdere le
tracce della sua provenienza, cioè reinvestirlo e così purificarlo, ma non
possono certo condurre in proprio le operazioni tecniche di investimento.
Qualcuno deve farlo. Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese
industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente, prudentemente,
garbatamente, silenziosamente amabilmente finanziate, possono riuscire ad
impiegare quei capitali, trasformandoli in opere di sicuro valore
economico. E non è detto che non siano opere di mirabile importanza e
perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere modello, una
città-giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa.
E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro
cavalieri catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la
citazione: "I quattro cavalieri dell’Apocalisse". L’Italia è uno strano
paese in cui si sperimentano bizzarre onorificenze, per le quali cavaliere
del lavoro invece di essere un bracciante, anche analfabeta, che per
trent’anni si è spaccata la vita in una miniera tedesca pur di riuscire a
costruirsi una casa a Palma di Montechiaro, è invece un appaltatore che
riesce a trovare fantasia e modo di moltiplicare la sua ricchezza. Tutto
questo in un paese dove la gestione e la moltiplicazione della ricchezza,
la grande fortuna economica o finanziaria, per struttura stessa della
società politica, deve fatalmente passare attraverso un compromesso
costante con il potere, con i partiti che sostanzialmente amministrano la
nazione, con gli uomini politici o gli altissimi burocrati ai quali i
partiti delegano praticamente tale funzione, lo spirito di nuove leggi e
decreti, la scelta delle opere pubbliche, l’assegnazione degli appalti. Chi
afferma il contrario è candidamente fuori dal mondo oppure è un amabile
imbecille.
A questo punto della storia dunque avanzano sul palcoscenico i quattro
cavalieri di Catania, loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di
aspiranti cavalieri di ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri,
soci in affari, subappaltatori. Chi sono i quattro cavalieri di Catania? E’
una domanda importante ed anche spettacolare poiché i quattro personaggi
sembrano disegnati apposta per costituire spettacolo. Profondamente
dissimili l’uno dall’altro, nell’aspetto fisico e nel carattere. Costanzo
massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente
collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci
piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono
però tutti alla stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito
grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza
moda proprio dell’industriale self-made-man.
Tutti e quattro hanno imprese, aziende, interessi in tutte le direzioni,
industrie, agricoltura, edilizia, costruzioni. Non si sa di loro chi sia il
più ricco, a giudicare dalle tasse che paga sarebbe Rendo, ma altri dicono
sia invece Costanzo, il più prepotente, l’unico che abbia osato pretendere
e ottenere un gigantesco appalto a Palermo; altri ancora indicano Graci,
proprietario di una banca che, per capitali, è il terzo istituto della
regione. La ricchezza di Finocchiaro non è valutabile. Molti ancora si
chiedono: ma chi è questo Finocchiaro.
Costanzo costruisce di tutto. Case popolari, palazzi, villaggi turistici
(la Perla Jonica, sulla costa di Catania, ha nel suo centro un palazzo dei
congressi che non esiste nemmeno a Roma, i partecipanti al congresso
nazionale dei magistrati in cui era appunto all’ordine del giorno la lotta
contro la mafia, improvvisamente si accorsero di essere riuniti e di
lavorare in uno dei templi del potere di Costanzo). Costanzo costruisce
anche autostrade, ponti, gallerie, dighe; e possiede anche le industrie
necessarie a produrre tutto quello che serve alle costruzioni: travature
metalliche, macchine, tondini di ferro, precompressi in cemento, infissi in
alluminio, tegole, attrezzature sanitarie. Un impero economico autonomo che
non deve chiedere niente a nessuno. Poche aziende in Europa reggono il
confronto per completezza di struttura. Ha un buon pacchetto di azioni in
una delle più diffuse emittenti televisive private. E’ anche presidente e
maggiore azionista della Banca popolare.
Rendo ha interessi più diversificati, diremmo più moderni, almeno
culturalmente la sua azienda sembra un gradino più in alto. Anche lui
costruisce case, palazzi, ponti, autostrade, dighe, ma possiede anche
aziende agricole modello che guardano con estrema attenzione agli sviluppi
del mercato europeo e alle ultime innovazioni tecniche. Ha un suo piccolo
fiore all’occhiello, una fondazione culturale che destina fondi alla
ricerca scientifica a livello universitario. Quanto meno ha capito che i
soldi non possono servire soltanto a produrre altri soldi. La sede della
holding è il ritratto stesso dell’azienda, una serie di palazzi di acciaio,
alluminio e metallo, l’uno legato all’altro, sulla cima di una collina alle
spalle di Catania, una immensa sagoma grigia e azzurra, come tre palazzi
della RAI di via Mazzini, incastrati insieme, e circondati da un immenso
giardino al quale si accede soltanto per un ingresso sorvegliato da uomini
armati. Sembra il passaggio di un confine. Anche Rendo naturalmente ha la
sua televisione privata con la quale garbatamente interviene nella
informazione della pubblica opinione. Ricordiamoci che Andropov, l’uomo
nuovo del Cremlino successore di Breznev, è riuscito ad arrivare al vertice
dell’impero sovietico poiché, mentre era a capo dei servizi segreti inventò
l’ufficio della disinformazione, specializzato nel confondere la realtà. Si
tratta di una scienza ammessa al massimo livello politico.
L’impero di Graci non ha sede. Cuore e cervello motore di tutte le
iniziative è probabilmente la Banca agricola etnea, di sua proprietà. Per
il resto Graci è pressoché invisibile. Amico di Gullotti e di Lauricella,
vive gran parte del suo tempo a Roma, dove studia, coordina, dirige. Fra
tutti è quello che ha la più vasta copia di interessi, cantieri di
costruzione in ogni parte dell’isola e dell’Italia, aziende agricole,
villaggi turistici, immense estensioni di terra dappertutto. Negli ultimi
tempi la sua predilezione sono i grandi alberghi di fama internazionale: il
suo più recente acquisto l’hotel Timeo, sulla collina di Taormina, a
ridosso del Teatro Greco, uno degli alberghi più belli del Mediterraneo,
arredato in stile inglese primo novecento. Pare abbia acquistato dal duca
di Misterbianco (sembra una storia del Gattopardo, raccontata cento anni
dopo) il famoso lido dei Ciclopi, il più prezioso giardino equatoriale,
ricco di piante esotiche che non hanno eguali in Europa e che per
quarant’anni nessuno ha osato sottrarre alla sua destinazione balneare. Di
tutti i cavalieri del lavoro Graci, che fino a qualche anno fa era
sconosciuto a Catania, e il più riservato, raramente compare in prima
persona. Possiede anche lui la maggioranza azionaria di un’emittente
privata e di un giornale quotidiano, ma il suo nome non figura nei
rispettivi consigli di amministrazione. Narrano anche della sua generosità.
Ogni tanto organizza per i suoi amici mitiche partite di caccia in uno dei
suoi feudi siciliani! Possiede anche una favolosa cantina di vini pregiati
ai quali sono ammessi soltanto gli amici di vertice.
Finocchiaro sembra il cavaliere meno forte. L’ultimo arrivato dei quattro
al rango di massima potenza. Costruisce soltanto, e quasi sempre solo
palazzi. Ha però una sua regola: efficiente, preciso, puntuale, rapido, i
suoi appalti sono stati sempre terminati a tempo di record. In meno di due
anni ha costruito il nuovo palazzo della Posta ferroviaria, un gigantesco
edificio moderno sul lungomare di Catania, accanto alla stazione, e la
nuova Pretura, altro massiccio edificio incastrato proprio nel cuore della
città, a cento metri dal palazzo di Giustizia. Poiché la Pretura di Catania
convoglia quotidianamente gli interessi di migliaia di persone, non appena
il nuovo edificio entrerà in funzione, il traffico di tutta quella zona
essenziale della vita cittadina, resterà probabilmente paralizzato. Esempio
di come possa essere nefanda un’opera pubblica pur perfettamente
realizzata. Finocchiaro infine è anche il più lezioso. La sede della sua
impresa sorge sulla litoranea fra Catania e i Ciclopi, in uno dei tratti
più splendidi della riviera, una grande villa, in verità bellissima,
sovrastata e circondata dal verde e da una serie di piscine
intercomunicanti, sicché, una levissima massa d’acqua si muove
ininterrottamente dalle terrazze ai patii. La gente passa, guarda e
s’incanta.
Questi, almeno dal punto di vista dello spettacolo, i quattro cavalieri di
Catania. Ma chi sono in verità? Perseguiti dalla magistratura con mandati
di cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati di gigantesche frodi
fiscali e addirittura di associazione a delinquere, assediati dalla guardia
di finanza che sta frugando in tutti i loro conti, rifiutati dalla pubblica
opinione, soprattutto dai più poveri e sfortunati i quali non riescono mai
ad amare le fortune troppo rapide e sprezzanti, ed al momento in cui le
vedono crollare hanno un momento di trasalimento di felicità e un grido:
"Lo sapevo!", i quattro cavalieri sono nell’occhio del ciclone, in mezzo al
quale sta immobile e sanguinoso l’assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la
più feroce e tragica sfida portata dalla mafia all’intera nazione.
Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo
autentico tempo di apocalisse? Già il fatto che questi quattro personaggi
si siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro
dell’imprenditoria e quindi praticamente dell’economia di mezza Sicilia e
stiano lì segretamente, due più due quattro, seduti l’uno in faccia
all’altro, a valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una
sala che è facile immaginare di gelido vetro e metallo, inaccessibile a
tutti, nel cuore segreto dell’impero Rendo, con decine di uomini armati
dislocati ad ogni ingresso del palazzo; e che al termine del convegno uno
di loro, Costanzo, il più plateale, chiaramente tuttavia portavoce di tutti
e infatti mai smentito, dichiari spavaldamente al massimo giornale
italiano: "Abbiamo deciso di aggiudicarci tutte le operazioni e gli appalti
più importanti, quelli per decine o centinaia di miliardi, lasciando agli
altri solo i piccoli affari di due o tre miliardi, tanto perché possano
campare anche loro!"; e che tutti e quattro siano giudiziariamente accusati
di evasioni per decine o forse centinaia di miliardi, tutto denaro
pubblico, quindi appartenente anche al maestro elementare, al piccolo
artigiano, al contadino, al manovale, all’impiegato di gruppo C,
all’emigrante, poveri innumerevoli italiani che sputano sangue per
sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di
loro siano stati amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss
Santapaola, ricercato per l’omicidio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il
cui capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene
tutto questo non corrisponde all’immagine, secondo costituzione, di
cavalieri della repubblica.
Ma non è questo il punto. Il quesito è un altro, ben più duro e drammatico:
i quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in quel
massimo e misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda
si possono dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che
appare, quello che la gente pensa, e quello che probabilmente è vero.
Quello che appare è ciò che abbiamo descritto, cioè di quattro potenti di
colpo sospinti nel cuore di una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e
giudiziariamente per possibili e gravi delitti. Solo il magistrato potrà
dire una verità che può essere tutto e il contrario di tutto.
Quello che la gente pensa è più brutale, e cioè che i cavalieri di Catania,
o taluno di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro a
impartire l’ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale osò
chiedere allo stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi
economici. Ma quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi
giornali, con perigliose acrobazie di linguaggio hanno dovuto riferire) non
può avere alcun valore giuridico e nemmeno morale, poiché può nascere da
pensieri spesso mediocri, rancori sociali, invidie umane. Non ci sono prove
e quindi fino ad oggi non esiste!
Infine quello che probabilmente è: cioè di quattro personaggi i quali, con
superiore astuzia, temerarietà, saggezza, intraprendenza, hanno saputo
perfettamente capire i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del
nostro tempo e della classe politica che la governa, ed essere più rapidi e
decisi nel trarne i vantaggi. Enrico Mattei era maestro in questa arte.
Anche Agnelli deve essere più rapido e deciso dei concorrenti. Il rapporto
con la mafia è stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i
vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere
proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti delle opere
pubbliche. Questo è affar nostro. Voi volete gestire la droga! Affar
vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e trasporto!
Che sia! Però non vogliamo bombe nei nostri cantieri, nemmeno estorsioni,
nemmeno che i nostri figli, parenti, fratelli, amici, possano essere rapiti
o sequestrati.
Se così è, tutto questo non è morale, ma non è nemmeno reato! E purtroppo
non è nemmeno una vera risposta in un momento storico terribile in cui la
tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di verità definitive, anche se
agghiaccianti. Esiste infatti una realtà innegabile: perché la mafia possa
amministrare le sue migliaia di miliardi, debbono pur esserci imprese
private ed istituti pubblici, uomini d’affari o di politica capaci di
garantire l’impiego e la purificazione di quell’ininterrotto fiume di
denaro. La nazione ha finalmente il diritto di identificarli! E la Sicilia
il diritto di non essere data in olocausto alla incapacità dello stato (o
peggio) di identificarli. Esiste oltretutto una realtà che è anche un fatto
morale e politico di cui bisogna onestamente parlare. Da decenni, forse da
secoli, la società siciliana non ha avuto una imprenditoria capace di
esprimere le sue esigenze e metterle al passo con la tecnica e la
civiltà.Venivano tutti da nord, prendevano il denaro e il territorio,
costruivano e se ne andavano. Spesso costruivano male. Talvolta le loro
opere erano autentiche rapine o devastazioni o truffe. Il saccheggio del
golfo di Augusta e l’avvelenamento di centomila abitanti di quel territorio
con gli scarichi petrolchimici costituirono una di queste grandi imprese. I
giganteschi ruderi industriali nel golfo di Termini Imerese, stabilimenti
che non hanno mai funzionato e che hanno divorato migliaia di miliardi
della regione, rappresentano un’altra impresa. In tutto quello che è stato
costruito in Sicilia, i siciliani sono stati al più subappaltatori (se
possibile anche mafiosi) o soltanto miserabile manodopera. Erano poveri,
ignoranti, disponibili, costavano poco, non si ribellavano mai. I colossi
petrolchimici della Rasiom furono costruiti con migliaia di pecorai e
braccianti trasformati in manovali. La Sicilia è stata sempre una terra
tecnodipendente.
Improvvisamente, nell’ultimo ventennio, sono emersi questi cavalieri del
lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti,
aggressivi, qualcuno anche grossolano e ignorante, però dotati di fantasia,
di straordinarie capacità industriali e tecniche, e di talento, precisione,
velocità. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato
aziende e tecnici di altissima specializzazione, incorporato in questa
grande macchina di lavoro decine di migliaia di altri siciliani, e la loro
intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in
Europa, in Africa, nel Sud America. La loro concorrenza è spietata. Molte
grandi aziende del nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo
meridionale, ma si vedono insidiati nel loro stesso territorio. Bene, la
tragedia mafiosa certamente ha offerto la possibilità di una controffensiva
su tutto il fronte, una specie di santa inquisizione. Il tentativo di
stabilire un rapporto di colonizzazione è chiaro.
Allora a questo punto il discorso è già perfetto. Se tutti i cavalieri di
Catania e di Sicilia, tutta l’imprenditoria dell’isola fa parte della
struttura mafiosa, che la si sradichi e distrugga con tutti i mezzi della
giustizia. Se solo alcuni di loro sono dentro la mafia, allora bisogna
colpire soltanto loro, implacabilmente, eliminandoli dalla società, e
rilasciando così agli altri, ai superstiti, una possibilità politica e
morale di continuare l’opera di evoluzione tecnica che per molti versi
stava trasformando la Sicilia. Colpire tutti, anche gli innocenti, equivale
a non colpire nessuno, lasciando quindi i mafiosi nel loro ruolo; significa
egualmente il trionfo della mafia. La mafia che finalmente si identifica
con lo stato! Ed è qui che entra in gioco l’ultimo livello della struttura,
l’imperscrutabile vertice che finora ha paralizzato la giustizia.
Riguardiamola questa struttura. In basso la sterminata folla di manovali
che si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite
cose dalle quali può nascere ricchezza: i mercati, le concessioni, i
subappalti, le estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta
e insanguina quasi tutte le funzioni della società sottomettendo le
province, le città, i quartieri. Più in alto, molto più in alto, i due
livelli paralleli, i grandi, insospettabili finanzieri e operatori che
gestiscono migliaia di miliardi della droga; le banche che ricevono,
nascondono e riciclano quella massa infame e infinita di denaro; le grandi
holding siciliane, romane, milanesi, che assorbono quel denaro e lo
trasformano in ammirabili operazioni pubbliche e private. Manca l’ultimo
livello, il più alto di tutti, senza il quale gli altri non avrebbero
possibilità di esistere. Il potere politico! Vi racconto una piccola atroce
storia per capire quale possa essere la posizione del potere politico
dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi
non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tut’oggi il
senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo,
nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia
palermitana c’è un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome
Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della Dc,
rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso,
chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici.
Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo
politico del partito, in una zona fin allora feudo di liberali e
monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi
tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero
saccheggiato il comune. Con un gesto di temeraria dignità rifiutò le
tessere.
Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora domanda alla
segreteria provinciale della Dc, retta in quel tempo dall’ancora giovanile
Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle
quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era
medico di paese, un galantuomo che credeva nella Dc come ideale di governo
politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no.
Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che se non avesse
ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico medico galantuomo,
sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò ancora. La
segreteria provinciale si incazzò, sospese dal partito il sindaco Almerico
e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico
cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale, indirizzato
alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che
accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E
continuò a vivere nell’attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti.
Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva solo
continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche nuove e
moderne. Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per
proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre
Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di
Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a sparare contro
quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due
scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato,
ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico,
per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un
pazzo alla memoria.
E’ una storia oramai lontana e dimenticata, nella quale erano in gioco
soltanto quattrocento voti di preferenza: una piccola storia però perfetta
come un teorema poiché spiega come può il potere politico gestire la
vicenda mafiosa e starci da protagonista. E come ancora oggi negli anni
’80, al vertice di ogni livello di mafia stia immobile e inalterabile una
parte del potere politico. Il potere politico che è misterioso sempre e mai
perfettamente identificabile, spesso nemmeno perseguibile dalla giustizia
che ha nelle mani tutti gli strumenti, positivi e negativi della potenza:
dovrebbe proteggere ecologicamente un territorio e invece lo abbandona alla
morte chimica o alla speculazione selvaggia; già da dieci anni avrebbe
dovuto abolire il segreto bancario e non lo ha mai fatto; dovrebbe
emarginare gli uomini corrotti, ignoranti, violenti e viceversa li conduce
talvolta in parlamento e gli affida uffici ministeriali onnipotenti;
dovrebbe garantire la regolarità dei concorsi e invece assedia le
commissioni di esame con raccomandazioni e violenze morali; dovrebbe
costruire una diga in quella provincia e invece costruisce un villaggio
turistico in un’altra; dovrebbe smantellare determinati uffici di procura e
invece li abbandona nelle mani di giudici inerti, paurosi, o peggio. Il
potere politico che nasconde, protegge, mimetizza, informa, contratta,
archivia. Il potere politico che stabilisce la spesa di migliaia di
miliardi per opere pubbliche, determina l’ubicazione e consistenza delle
opere, ne affida gli appalti. Il presidente della regione Pier Santi
Mattarella, anche lui democristiano onesto, venne ucciso perché aveva
deciso di spendere onestamente i mille miliardi della legge speciale per il
risanamento di Palermo. Quasi certamente fra coloro che assistettero
commossi ai funerali, espressero sincere condoglianze, e baciarono la mano
alla vedova, c’erano i suoi assassini. Probabilmente gli stessi che avevano
seguito dolorosamente i funerali del vice questore Boris Giuliano, del
giudice istruttore Cesare Terranova, del procuratore della repubblica
Gaetano Costa, del segretario comunista Pio La Torre. Tutti e quattro
assassinati poiché stavano già scoprendo i punti di sutura fra politica e
mafia.
Anche il generale Dalla Chiesa aveva capito. Era uno sbirro nel senso
eccellente della parola. Non dimentichiamo che aveva presentato domanda di
iscrizione alla P2. La domanda non era stata accettata poiché Gelli aveva
fiutato l’infido e cercato di prendere tempo. E lo stesso Dalla Chiesa ebbe
poi a giustificarsi affermando di aver compiuto quella oscura mossa
personale per scoprire alcune verità politiche all’interno della loggia
massonica segreta. Quanto potesse essere sincero lo seppe soltanto lui.
Certo era un uomo che da tempo aveva intuito la connessione fra potere
politico, ricchezza e violenza. La lunga e atroce lotta contro le BR gli
aveva fornito preziosi elementi di prova, ed altri ne aveva acquisiti in
centinaia di interrogatori. Si stava disegnando una sua mappa dell’occulto.
Quando arrivò a Palermo con la carica di superprefetto, i vertici criminali
sapevano perfettamente di avere di fronte l’avversario più duro e
cosciente. Rispetto agli altri che erano caduti prima di lui, egli aveva in
più un prestigio mitico, ma soprattutto stava per avere in pugno gli
strumenti giuridici, le armi decisive per condurre la lotta fino in fondo:
quei superpoteri che incredibilmente (un giorno bisognerà pur riscriverla
perfettamente questa storia) lo Stato continuava a negargli e che tuttavia
alla fine avrebbe dovuto concedergli. Dalla Chiesa commise un solo errore.
Di vanità. In fondo egli restava un militare e quindi soprattutto un
retore. Gli piaceva trasformare qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte
le vanaglorie del combattimento: bandiere, tamburi, proclami, applausi,
dimostrazioni di amore popolare. Tutto questo contro un avversario che era
sempre sottoterra, un gelido, sinistro groviglio di serpenti che potevano
essere dovunque, in ogni momento sotto i suoi piedi, che potevano sedere
accanto a lui sul palco di una festa nazionale, stringergli la mano, fargli
auguri e congratulazioni. Seguire poi tristemente il suo funerale, come poi
certamente accadde. La guerra contro un tale nemico è oscura e senza
gloria, e infinitamente più terribile di ogni altra, non si può vincere in
una serie infinita di scaramucce, poiché i serpenti restano dovunque,
muoiono e si moltiplicano, ma bisogna vincerla in una volta sola, una sola
battaglia, preparata con paziente perfezione in ogni dettaglio. Invece il
generale Dalla Chiesa faceva discorsi, rilasciava interviste, invocava,
accusava, era l’unico personaggio italiano che poteva chiedere ed ottenere
i poteri speciali, e quindi anche la facoltà di indagini nelle banche e nei
patrimoni privati, e lo fece sapere a tutti: praticamente come se dicesse a
tutti, gridasse: "So chi siete, da un momento all’altro vi strapperò la
maschera! Fate presto a uccidermi o non avrete tempo!"
E come tutti i retori era anche ingenuo. Avrebbe dovuto preparare la
battaglia, chiuso in un bunker, protetto da cento carabinieri e da ogni
diavoleria elettronica, e invece viaggiava su una macchinetta con la
giovane moglie accanto e solo un povero agente di scorta. Proprio questo
poveraccio avrebbe dovuto rifiutarsi: "Generale, io così con lei non
viaggio!" Ma Dalla Chiesa era un mito! Infatti lo uccisero con una facilità
irrisoria, a colpo sicuro, (se è vero quello che finora ha detto la
magistratura) con due rozzi killer, proprio manovali della mafia fatti
venire da un’altra provincia della Sicilia e addirittura dalla Calabria.
Dalla Chiesa morì, ma il suo colpo tremendo l’aveva già vibrato, forse
proprio con la sua ingenua retorica, indicando con discorsi e proclami a
tutta la nazione, clamorosamente, quello che tanti altri ministri, anche
altissimi ufficiali e magistrati, sapevano e però non dicevano, cioè
dov’era il groviglio dei serpenti, e quali dunque i mezzi per portarli allo
scoperto e schiacciarli.
- Ci sono 7 contributi al forum. - Policy sui Forum -
> I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Pippo Fava
16 maggio 2004, di : cittadino
ma cosa ha fatto la magistratura negli anni di questi 4 cavalieri,ha pensato forse che era tutto regolare,aime’ penso proprio che chi ha soldi comanda sempre in questo schifo di paese.
ma cosa ha fatto la magistratura negli anni di questi 4 cavalieri,ha pensato forse che era tutto regolare,aime’ penso proprio che chi ha soldi comanda sempre in questo schifo di paese.
> I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Pippo Fava
14 febbraio 2013, di : Racot
I quattro cavalieri dell’apocalisse è vero,non sono stati accusati come mandanti dell’omicidio di Giuseppe Fava, ma il loro impero è crollato come è crollata l’economia dell’isola. Tanto che viene il sospetto che ad uccidere Fava non siano stati gli amici dei cavalieri ma i loro NEMICI.
I quattro cavalieri dell’apocalisse è vero,non sono stati accusati come mandanti dell’omicidio di Giuseppe Fava, ma il loro impero è crollato come è crollata l’economia dell’isola. Tanto che viene il sospetto che ad uccidere Fava non siano stati gli amici dei cavalieri ma i loro NEMICI.
> I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Pippo Fava
28 aprile 2013, di : Merinello
Il fatto che tu abbia impiegato nove anni per rispondere a questa affermazione dimostra una sola cosa: tutto questo è ancora attuale. Oggi. Trent’anni fa. Cinquanta. Che tristezza.
Il fatto che tu abbia impiegato nove anni per rispondere a questa affermazione dimostra una sola cosa: tutto questo è ancora attuale. Oggi. Trent’anni fa. Cinquanta. Che tristezza.
> I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Pippo Fava
13 settembre 2005, di : Alfredo
Conoscevo questo articolo ed il suo autore solo di fama. Ho letto l’articolo. E’ stupefacente,grazie Pippo per quello che hai fatto e scritto. ’Un Siciliano’
Conoscevo questo articolo ed il suo autore solo di fama. Ho letto l’articolo. E’ stupefacente,grazie Pippo per quello che hai fatto e scritto. ’Un Siciliano’
I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Pippo Fava
3 luglio 2007, di : www.GiuseppeBaudo.it
Ho sentito parlare di questo articolo proprio qualche giorno fa dal sindaco di Gela Crocetta. Mi ero promesso di cercarlo ed invece è stato lui che ha trovato me, qui nel vostro sito.
Giuseppe Baudo
www.giuseppebaudo.it
I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Pippo Fava
30 dicembre 2008, di : Saverio
Allora come oggi: la verità esiste, ma bisogna cercarla con coraggio ed al di fuori dei canali tradizionali. Grazie Fava
Allora come oggi: la verità esiste, ma bisogna cercarla con coraggio ed al di fuori dei canali tradizionali. Grazie Fava
I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, di Pippo Fava
3 gennaio 2009, di : Filippo MI |||||| Sito Web: http://filippomi.blogspot.com/
Caro Pippo ci manchi, siamo stanchi di "giornalai" che propugnano la costruzione di inutili ponti sullo stretto di Messina ed invitano i ragazzi siciliani a mangiare pane ed olive piuttosto che mettersi in discussione cercando altrove la possibilità di crescere professionalmente.
Se Catania è regredita così tanto negli ultimi 25 anni, è forse dovuto anche a chi ha sposato un’etica che è agli antipodi del concetto di giornalismo da te auspicato.