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I paladini, i contadini, il sole e la luna

Una serata con i pupi “all’opera” è stato l’inizio ideale per la rassegna Lithos

di T.M. - martedì 5 settembre 2006 - 6505 letture

Una serata con i pupi “all’Opera” è stato l’inizio ideale per la rassegna di musiche popolari Lithos. Uso la parola ideale nel senso più diffuso, per dire “il migliore possibile” ma anche in un senso che si fa interprete delle tante ragioni di questo evento, non didascalicamente spiegate ma sapientemente evocate.

Forse preferirei che questa apertura teatrale, epica, storica non fosse stata una scelta meditata ma una sorta di riflesso istintivo simile a quello degli animali che trovano l’erba giusta per guarirsi. Che sia chiaro, non si vuole alludere ad una rassegna “animale ferito” - gode, grazie al cielo e a tante persone, di ottima salute -, ma è la cultura contemporanea ad aver bisogno di erbe medicamentose. Quest’ultima, ovviamente, è opinione di parte. È certezza invece che il direttore artistico Carlo Muratori e gli organizzatori abbiano saputo cogliere nel teatro dei pupi anche gli aspetti meno appariscenti ma pertinenti al “senso” dell’evento, tanto da proporre la Compagnia dell’Opera dei Pupi della Famiglia Puglisi ne La disfatta di Roncisvalle in una serata che precede quelle dedicate alla musica.

Insieme ai paladini di Orlando entra in scena una cultura popolare non monolitica, fatta coincidere nell’immaginario di oggi con la “civiltà contadina” dalle fattezze Otto- e Novecentesche, di una tradizione orale con esclusiva matrice autorale identificata nelle “classi subalterne”. L’epica cavalleresca, rappresentata di preferenza dal teatro dei pupi, fa emergere processi e capacità di assimilazione, di rielaborazione che caratterizzano - quando è viva - una cultura la quale, proprio mettendo in atto la reinterpretazione dei “prodotti” di una cultura altra, dimostra di essere non “subalterna”.

Le storie (le sceneggiature) di questo teatro si rifanno a fonti scritte e ben note (senza andare indietro ai trovatori francesi o ad Ariosto fermiamoci nel 1858 alla Storia dei paladini di Francia di Giusto Lo Dico), esse stesse hanno autori ben noti (tra i quali brilla il nome anche di Ignazio Puglisi), non per questo potrebbero essere scartate dal repertorio della “cultura popolare”. Osservazioni simili potrebbero e dovrebbero essere fatte anche riguardo gli elementi scenografici, decorativi.

Non è dunque la “pura fonte” (ergo fonte orale) la discriminante unica o principale; Carlo Muratori lo aveva già dimostrato “in musica”, con il repertorio del suo ultimo - benemerito - “disco di servizio”, Sicily. Scegliendo invece, ora, l’opera dei pupi per introdurci alla musica di Lithos, mette in evidenza la linea narrativa ininterrotta tra cantastorie e l’opra dei pupi ma anche, in ultima analisi, la poesia-narrazione incarnata per ultimi - cronologicamente, ben inteso - dai cantautori. La storia dei paladini e di un re morti più di mille anni fa o l’amore pazzo di un certo Orlando oggi potrebbero non interessare nessuno. Ma l’epica crea personaggi ai quali attribuire valori etici, crea eventi-simbolo, crea sorti paradigmatiche, le crea e le tramanda su un tessuto sufficientemente resistente alla corrosione dei tempi e permeabile alla lettura attualizzante, con un linguaggio che è della poesia, che ha la forza della poesia.

Della poesia popolare, del canto popolare a volte (sempre più raramente...) si ricorda l’anima ribelle, un suo valore intrinseco nel rappresentare una condizione sociale e le lotte di emancipazione. La “civiltà contadina” vista con il distacco storico-culturale dei giorni nostri può apparire l’antitesi della poesia alla quale si è portati ad assegnare un’aureola, se vogliamo semplificare, “intellettuale”. Come se una stessa poiesis non potesse accomunare Ariosto o Quasimodo e un pastore degli Iblei. Giunge dunque assai utile questo ritorno all’epica, alla forza evocativa della parola, alle elementari forme-formule poetiche. Non è, infatti, la semplice riproposizione di testi - d’autore o “popolari” - che farà (ri)vivere una cultura ma la capacità di continuare a parlare un linguaggio costruito con tali forme-formule. Anche narrando storie d’un tempo (come fa il teatro dei pupi e la compagnia della famiglia Puglisi) che la metamorfosi poetica può rendere storie di oggi.

L’erba medicamentosa che Carlo Muratori e Lithos hanno offerto in apertura è la metafora, è la poesia, per una sera ancora con la sola musica “iscritta” nelle parole.

È forte la tentazione di proporre qui una possibile “lettura in chiave” della disfatta di Roncisvalle o della figura di Orlando innamorato-furioso il cui senno sarà ritrovato sulla luna. Finiremmo magari col domandarci quale senso metaforico-allegorico questa storia possa avere per noi o quale senso poteva avere per i contadini che la ascoltavano nelle fiere, cent’anni fa. Col domandarci cosa c’entra il cielo-metafora con il pragmatismo della civiltà contadina. A questa domanda, però, sa rispondere il pastore Leonardo incontrato sulle pagine dei Racconti siciliani di Danilo Dolci.

«Le stelle le ho viste, ma non so cosa sono. Sono a uso delle stampe del signore. Pure nelle stampe del Signore ci sono le stelle. Sono a uso d’occhi, chi sa che sono. La luna è la Madonna. L’ho sentito dire e lo dico pure. Il sole è il Signore. La luna è la Madonna. Ci prego. Ci dico quando fa freddo che affacciasse, quando fa caldo ci dico che facesse fresco. Quando fa freddo: - Quariasse, - ci dico, perché affacci. Alla luna quando fa scuro ci dico di affacciare. Ci voglio bene al sole e alla luna. Quando fa freddo, affaccia il sole e piace. Quando fa scuro, affaccia la luna e piace, si vede a camminare. [...]

Le nuvole le ho viste. Ma non so cosa sono. Vanno quando c’è il vento. Siamo al mondo perché ci abbiamo la casa e lavoriamo. Si mangia. Siamo al mondo per lavorare. Per mangiare. Per lavorare. Io niente so. L’uomo invecchisce, tutto invecchisce, cristiani e animali. Il sole non invecchia mai.»

Questa è poesia. Popolare?

Teréz Marosi


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