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Guerra economica, intelligence economica e terrorismo islamico

Intervista a Ali Laidi - ricercatore presso l’Institut de Relations Internationales et Stratégiques (IRIS) e presentatore a France24 - che da anni segue questi complessi avvenimenti che stanno cambiando gli assetti geopolitici del mondo

di Emanuele G. - mercoledì 7 ottobre 2015 - 3801 letture

Il Fronte Sud – Medio Oriente e Africa Maghrebina – è fonte di preoccupazioni a livello mondiale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Con il passare del tempo la situazione si è viepiù aggravata per giungere ai giorni d’oggi dove si avverte palpabile un sentore di guerra totale di tutti contro tutti in quell’area strategica. Ciò è stato possibile in virtù a giganteschi interessi economici e geostrategici così forti da escludere le sterminate masse arabe e islamiche da condizioni dignitose di vita. Pertanto, termini quali “guerra economica”, “intelligence economica” e “terrorismo islamico” appaiono fortemente intrecciati fra di loro. Su questi tre termini abbiamo realizzato un’intervista con un attento osservatore delle vicende storiche degli ultimi decenni. Il ricercatore e giornalista francese Ali Laidi.

Emanuele Gentile: Vi occupate di tematiche fortemente collegate. Mi riferisco a guerra economica, intelligence economica e terrorismo islamico. Ci potete spiegare perché sono così collegate?

Ali Laidi: Ho cominciato ad occuparmi di terrorismo nel 1992 avendo l’occasione di osservare i militanti del FIS, esiliati in Francia dopo l’arresto del processo elettorale in Algeria nel 1991, nelle banlieu francesi. Mi sono dunque interessato del terrorismo. Una questione mi ripetevo spesso: perché? Perché delle persone decidono di passare all’azione, all’azione terroristica? Pur analizzando i miei orizzonti sull’islamismo, la religione e così via discorrendo non riuscivo a darmi una risposta. Per caso incontrai nel 1996 delle persone che stavano portando avanti delle ricerche nel campo della guerra economica. Rimasi affascinato e, di conseguenza, potei iniziare a leggere la realtà in maniera più ampia e politica il fenomeno terrorismo. A partire dagli attentati del 2001, abbiamo completamente dimenticato la seconda parte della definizione di terrorismo: l’utilizzo di modalità violente per fini politici. Sono i fini politici che mi interessano veramente. Ho, dunque, scritto un libro nel 2006 incentrato sui legami tra il terrorismo islamico e la guerra economica. Questi legami sono numerosi e li ho analizzati in questo saggio. Un esempio: se si leggono i testi di Al Qaeda e di Bin Laden ci si accorge che la questione è politica. I terroristi esigono dall’Occidente l’interruzione di ogni contatto con gli arabi e di cessare lo sfruttamento illegale delle risorse naturali della regione. Quando avevo l’occasione di discutere di questi argomenti con degli attivisti islamici, la questione afferente al velo e allo statuto delle donne era totalmente assente. I discorsi continuavano a girare attorno alla nozione di ingiustizia con cui l’Occidente tratta gli affari arabo-musulmani.

EG: Cos’è l’intelligence economica ? Un modo elegante per indicare una competizione piuttosto brutale negli ambienti economici ?

AL: L’intelligence economica (IE) è un concetto che pone l’informazione al centro di rapporti di forza essenzialmente economici. Come la frontiera fra l’economia e la politica è particolarmente permeabile, esiste un concetto specifico che pone la raccolta e la protezione delle informazioni al centro delle relazioni politico-economiche internazionali. In un certo senso l’IE può essere considerata come una visione del mondo quale è oggi e che, in effetti, traduce una radicalizzazione dei rapporti economici tra le aziende cosi come fra gli Stati.

EG: Secondo Zygmunt Bauman il genere umano vive in una sorte di “mondo liquido”. Pertanto, bisogna comprendere che la guerra moderna a delle caratteristiche totalmente differenti in relazione al passato…

AL: Non tanto questo. Sto finendo la scrittura di un libro sulla guerra economica al fine di dimostrare che la guerra economica è vecchia quanto l’uomo. Fin dalla preistoria i nostri antenati si facevano la guerra per ottenere i territori più ricchi in risorse naturali (acqua e cacciagione) e cercavano di rubarsi a vicenda le riserve di viveri. Non è una cosa nuova. Perché, allora, questo concetto assume caratteri più forti proprio ora? Perché il concetto di “doux commerce” di Montesquieu comincia di scomparire. Il commercio può ammorbidire i costumi, ma può anche trascinare verso la violenza. Quello che cerco di dimostrare, è che contrariamente alla favola dei liberali, il campo della politica non ha il monopolio della violenza. Che è presente anche nel campo economico. La competizione economica non è fatta solo di scambi tranquilli, qualche volta, sono ammessi colpi violenti per proteggere o acquisire delle parti del mercato. Lo scambio non è mai vincente-vincente, ci sono anche dei perdenti nella competizione economica. Fra l’altro la scuola liberale (Hayek…) spiega che il mercato non è questo luogo di scambio (Adam Smith) dove ciascuno (acquirente e venditore) possiede lo stesso livello di informazioni. Per la scuola neo-classica è il contrario!!! Affinché ci sia della concorrenza, è necessario che alcuni attori possiedano più informazioni o una migliore informazione rispetto agli altri al fine di vincere la competizione.

EG: Possiamo affermare che il mondo si trova in uno stato di guerra continuativa?

AL: Direi che il mondo come lo abbiamo conosciuto e costruito è in uno stato di competizione eterna. La competizione è un demone onnipotente che spinge alcuni attori a oltrepassare la linea gialla e a condurre delle vere e proprie guerre economiche. Questa competizione eterna comporta una visione di guerra dell’economia. Inoltra ha un terribile impatto sull’ontologia umana. Crea dei guerrieri economici che percepiscono le relazioni umane soltanto attraverso il prisma dell’interesse. Interesse che deve essere difeso ad ogni costo. Questa competizione continuativa crea una società diffidente e, pertanto, in fase di disaggregazione.

EG : Come possiamo assicurare un efficiente sistema di sicurezza visto che la distinzione classica fra periodi di pace e di guerra sembra non essere più valida?

AL: Tutta questa competizione spinta fino all’eccesso deve essere regolamentata con più di cooperazione. Se no l’umanità andra dritto dritto contro un muro poiché il nostro pianeta non può sopportare questo egoismo così nocivo per l’ambiente. Noi, società occidentali, dobbiamo poter governare, anche limitare, la nostra potenza. Dobbiamo, in fondo, accettare e anche proteggere altre modalità di vita che non sono fondate sul principio della competizione a tutti i costi. E’ meglio utilizzare la nostra potenza per preservare la diversità del mondo e rispettare per davvero la tolleranza come ci ha insegnato Paul Ricoeur. Ossia, la tolleranza, non è accettare che l’altro si vesta o viva in maniera differente, è invece accettare che l’altro possieda una parte della verità.

EG: Un aspetto poco conosciuto di questa guerrta continuativa è la guerra per ottenere la proprietà dei brevetti…

AL: E’ una constatazione corretta, ma è un aspetto marginale di questa guerra economica mondiale. In effetti, come lo dimostro attraverso i miei libri e le mie trasmissioni su France 24, purtroppo, nessun settore della nostra vita è scevro da questa competizione perpetua. Anche la nostra anima, anche la nostra morte sono oramai oggetto di un appeal commerciale. Facciamo l’esempio del Brasile, dove le diverse chiese (cattolica, pentecostale…) sviluppano una terribile competizione per attirare il maggior numero di fedeli. Questo perché le religioni sono diventate delle vere e proprie aziende. Le più grandi accolgono i loro fedeli in “mega church” ed hanno persino delle filiali che ci occupano di comunicazione! Da qui lo scandalo sui finanziamenti in riferimento alle campagne elettorali e la corruzione fra chiese, mondo della politica e mondo degli affari. A dir il vero la propeità intellettuale è un meccanismo importante in questa guerra economica. Alcuni attori si battono per “rubare” i secreti tecnologici dei loro concorrenti. Altri se ne impadroniscono in nome del diritto e del rispetto della vita umana come nel caso di farmaci che possono salvare la vita delle persone che non hanno mezzi economici per procurarseli. Non è un caso se l’industria dei medicinali generici è molto potente in India. Questo paese ha poco rispettato nei fatti la proprietà intellettuale per evidenti motivazioni di carattere sanitario (e senza dubbia ha avuto ragione in quanto ha preferito salvaguardare la vita delle persone piuttosto che seguire le regole troppo draconiane della competizione economica mondiale). Per altri versi, l’India ha approfittato di questa situazione per dotarsi di una industria del farmaco generico molto competitiva a livello internazionale.

EG: Come possiamo giudicare la drammatica scalata del terrorismo di marca islamica ?

AL: L’invasione americana dell’Iraq, paese che non dava asilo ad alcun terrorista né ospitava armi di distruzione di massa, fu un incredibile errore strategico. Non solo non ha diminuito la pressione del terrorismo, ma l’ha quintuplicato in un paese che non era affatto coinvolto dalle azioni degli emuli di Bin Laden. Noi stiamo pagando (crisi degli immigrati…) e noi pagheremo ancora in maniera molto forte questa eredità lasciata a noi da G.W. Bush. Pensavamo che Bin Laden aveva fallito nella sua strategia di sollevare le masse arabo-musulmane in seguito agli attentati dell’undici settembre del 2001. Invece, la sua strategia funziona. Ma dato che non abbiamo più la nozione del lungo periodo (plus di cinque anni), noi siamo così ciechi in riferimento alle dinamiche la la Storia sta disegnando. L’IS è un figlio (magari illegittimo) di Bin Laden ed accoliti. Il gruppo dell’IS destabilizza da solo ben due paesi, l’Iraq e la Siria, e indirettamente Libano. Ma se la situazione dovesse peggiorare la Giordania, l’Egitto e persino le petromonarchie del Golfo. In sintesi, purtroppo il sogno di Bin Laden può dirsi realizzato. D’altronde dopo l’undici settembre del 2001, l’auto-profezia riguardante la guerra di civiltà è in una fase di esplicazione molto netta. A quanto possiamo notare osservando quelli che in Occidente la sostengono.

EG: Un terrorismo che risponde a delle cause endogene oppure allogene?

AL: Dato che siamo nel pieno della globalizzazione tutto è collegato. Non ci sono più frontiere chiuse di maniera ermetica in riferimento a cause nazionali e cause internazionali, endogene o allogene. La maledizione del mondo arabo è la sua impotenza a far comprendere le sue necessità in seno al consesso internazionale. Basti pensare all’incredibile evoluzione del mondo a partire dal crollo del Muro di Berlino a novembre del 1989. Tutte le regioni del mondo ne hanno beneficiato. Sia dal punto di vista politico che economico. Anche l’Africa che soffre nonostante tutto di mille mali ancestrali. L’Africa è riuscita a diventare competitiva in seno alla competizione economica mondiale. Inoltre, in Africa esistono dei paesi democratici che accettano di lasciare la parola ai propri cittadini. Nel mondo arabo, non c’è né democrazia né sviluppo economico al servizio dei popoli. Le petromonarchie sono ricchissime, ma cosa se ne fanno di tutti questi dollari? Li investono in club di calcio come il Qatar che sta sperperando montagne di soldi per costruire stadi di calcio al fine di ospitare la coppa del mondo. Acquistano alberghi di lusso in Europa… Qual è il riscontro di questi investimenti? Quasi nullo. Si chiama tutto ciò “capitale morto”. Mai i popoli arabi approfittano di tutto questo per assicurarsi sviluppo e benessere. Perché questa regione, che è la più militarizzata del mondo, compra armi per miliardi di dollari non ha mai creato nessuna multinazionale (a parte Al Jazeera) degne di concorrere con quelle americane, europee, sud americane, asiatiche…? Perché, i dirigenti arabi che spendono migliaia di miliardi di ordini a favore di aziende occidentali o asitiche non esigono un trasferimento di tecnologia e di linee di montaggio in Egitto, Siria, Libano…? Il mondo arabo non ha alcuna strategia di intelligence economica. Eppure potrebbe esser messa al servizio dello sviluppo e, dunque, della stabilità della regione.

EG: L’immagine dell’Europa non è certamente delle più positive. Il nostro continente sembra vivere una crisi epocale e identitaria…

AL: La crisi dell’Europa è prima di tutto economica. Date del lavoro ai disoccupati e vedrete che una parte del disagio scomparirà. Una parte soltanto poiché è vero che l’Europa manca di un progetto. Esser riuscito ad assicurare la pace dopo la Seconda Guerra Mondiale per settant’anni è già un gran bel successo per l’Europa. Bisogna rendere omaggio a questi europei che sono riusciti a pacificare questo continente così turbolento. E per oggi? Ci vuole un forte progetto per mobilitare l’insieme degli europei. Quale? Non ho la soluzione. Tuttavia sono sicuro di una cosa : il vecchio continente non può accettare lo statuto di vassallo degli Stati Uniti. Deve trovare la sua strada e vocazione. Quella di una potenza mondiale tranquilla.

EG: Può darsi che questa crisi sia dovuta alla mancanza di attrazione culturale di cui offre il nostro continente ?

AL: Non sono sicuro che il nostro continente manchi di attrazione culturale, ciò dipende dai settori culturali. Invece, è vero che la crisi intellettuale è molto forte. Nel passato, faro del pensiero critico, l’Europa di oggi appare come al traino degli Stati Uniti che sanno attirare i grandi pensatori (anche quelli che non sono anglofoni). I pensatori critici americani hanno il vento in poppa poiché riescono a produrre un pensiero critico a partire dalle lotte politiche e sociali. Negli Stati Uniti, ma anche in Brasile e India, gli intellettuali riflettono collegandosi con i movimenti sociali. Non è più il caso dell’Europa dove il pensiero è scollegato da una certa realtà, dove il pensiero è in fondo al servizio di essa medesima, cioè del vuoto. E’ venuto il tempo che i nostri intellettuali scendano dalla loro tribuna mediatica o universitaria per andare a vedere sul terreno ciò che succede realmente. C’è un grande rischio nel non voler più partecipare al dibattito delle idee mondiali, quello di non influenzare più il futuro. Eppure, l’Europa ha modellato una parte dell’avvenire del mondo negli ultimi cinque secoli. Può darsi che tutto ciò non sia così grave poiché i pensatori degli altri continenti prendono in prestito il nostro modo di vedere il mondo. Certamente non ci possiamo vantare di aver messo sul giusto binario il mondo… C’è necessità di un’Europa più unita? E’ evidente che finché manchiamo di unità l’Europa è come un motore che va a vuoto. Ma come creare del consenso quando non conosciamo il progetto che dovrebbe riunire tutte queste differenze? Come preservare la diversità nell’Unione quando non sappiamo dove sta andando? Come, quindi, creare una solidarietà europea quando i dirigenti europei pensano troppo in termini nazionali? Il nostro mondo si muove veloce, molto veloce. I responsabili politici sembrano perdersi e non hanno il tempo di creare nuovi punti di orientazione al fine di modificare la loro visione. E’ dal basso che avviene l’adattamento più rapido e tutto (dobbiamo gioire di questo?) è il mercato. In questo caso, non è il cittadino che decide. Quello che bisogna soddisfare è in realtà il consumatore. Possiamo solo immaginare dove tutto questo può portarci!!!

Grazie per l’intervista. Temiamo che si preparino giorni estremamente complicati e difficili. E non solo per il Fronte Sud…


DI SEGUITO PUBBLICHIAMO LA TRASCRIZIONE IN LINGUA FRANCESE DELLE DOMANDE CHE HO POSTO AL PROFESSORE LAIDI E LE SUE RISPOSTE.

Emanuele Gentile : Vous vous occupez d’arguments fortement liés : guerre économique, intelligence économique et terrorisme islamiste. Pouvez-nous expliquer de quelle façon sont-ils liés ?

Ali Laidi : J’ai commencé à travailler sur le terrorisme en 1992 parce que je voyais des militants du FIS, exilés en France, (après l’arrêt du processus électoral en Algérie en 1991) dans les banlieues françaises. Je me suis donc intéressé au terrorisme. Une question sans réponse me taraudait l’esprit : pourquoi ? Pourquoi des jeunes passent-ils à l’action terroriste ? Même en élargissant ma focale sur l’islamisme, la religion, etc… je n’avais pas de réponse. Il se trouve que le hasard m’a fait rencontré à partir de 1996 des gens qui travaillaient sur les questions de guerre économique. Je m’y suis intéressé et c’est alors que j’ai pu avoir une grille de lecture plus large et plus politique sur le phénomène terroriste. A partir des attentats de 2001, on a complètement oublié la deuxième partie de la définition du terrorisme : l’utilisation de moyens violents à des fins politiques. Ce sont les fins politiques qui m’intéressent. J’ai donc rédigé un livre en 2006 sur les liens entre terrorisme islamiste et guerre économique. Ils sont nombreux et je les développe dans cet ouvrage. Un exemple : dans les textes d’Al-Qaïda et de Ben Laden, la question centrale est politique. Les terroristes exigent que les Occidentaux cessent de se mêler des affaires des Arabes et stoppent leur pillage des ressources naturelles de cette région. Quand je discutais avec des activistes islamistes, la question du voile et du statut de la femme était totalement absente. Les conversations tournaient toujours autour de la notion d’injustice dans le traitement qu’à l’Occident des affaires arabo-musulmanes.

EG : Qu’est-ce que c’est l’intelligence économique ? Une manière elegante pour indiquer une competition assez brutale dans le milieu économique ?

AL : L’intelligence économique (IE) est un concept qui met l’information au cœur des rapports de force essentiellement économique. Comme la frontière entre l’économie et le politique est très poreuse, c’est un concept global qui met le recueil et la protection des informations au centre des relations poltico-économiques internationales. Par extension donc, l’IE sert également de vision du monde tel qu’il est et qui, en effet, traduit une radicalisation des rapports économiques entre les entreprises mais aussi entre les Etats.

EG : Selon Zygmunt Bauman le genre humain vie dans « un monde liquide ». Donc, il faut penser que la guerre contemporaine a des caracteristiques totalement differentes par rapport le passé…

AL : Pas tant que cela. Je termine l’écriture d’un quatrième livre sur la guerre économique et je vais montrer que la guerre économique est aussi vieille que l’Homme. Dès la préhistoire, nos ancêtres se battent pour avoir les territoires les plus riches en ressources naturelles (eau et gibier) et s’entretuent également pour se voler des réserves de vivres. Ce n’est donc pas nouveau. Pourquoi alors, ce concept apparaît-il plus fortement aujourd’hui ? Parce que le mythe du doux commerce cher à Montesquieu est en train de s’éteindre. Le commerce peut adoucir les mœurs certes mais il peut aussi entraîner la violence. Ce que j’essaie de démontrer, c’est que contrairement à la fable des libéraux, le champ politique n’a pas le monopole de la violence. Celle-ci elle aussi présente dans le champ économique. La compétition économique n’est pas seulement fait d’échanges paisibles, parfois, tous les coups sont permis pour protéger ou acquérir des parts de marché. L’échange n’est pas toujours gagnant-gagnant, il y a aussi des perdants dans la compétition économique. D’ailleurs, l’école néoliberale (Hayek…) explique que le marché n’est pas ce lieu de l’échange (Adam Smith) où chacun (acheteur et vendeur) possède le même niveau d’information. Pour l’école néo-classique, c’est le contraire !!! Pour qu’il y ait concurrence, il faut que certains acteurs possèdent plus ou une meilleure information que les autres afin d’emporter la mise.

EG : Peut-on affirmer que le monde vie un état de guerre continuelle ?

AL : Je dirais plutôt que le monde tel que nous l’avons bâti est en état de compétition continuelle. C’est ce mode unique et omnipotent de la compétition qui pousse certains acteurs à franchir la ligne jaune et à mener de véritables guerres économiques. Cette compétition continuelle entraîne une vision guerrière de l’économie mais elle a aussi un terrible impact sur l’ontologie humaine. Elle fabrique des combattants économiques qui ne perçoivent les relations qu’à travers le prisme de l’intérêt qui doit être défendu à tous prix. Cette compétition continuelle crée une société de défiance, donc une société qui se désagrège.

EG : Comment alors assurer une efficace securité puisque il n’y a plus la distinction classique entre des périodes de paix et des périodes de guerre ?

AL : Ce trop plein de compétition doit être régulé par plus de coopération sinon c’est l’humanité qui va droit dans le mur car notre planète ne peut supporter cet égoïsme si nuisible pour l’environnement. Nous, sociétés occidentales, devons maîtriser, voir limiter notre puissance. Nous devons accepter et même protéger d’autres modes de vie qui ne sont pas fondés sur la compétition à tout crin. Nous devons utiliser notre puissance pour préserver la diversité du monde et respecter la vraie définition de la tolérance que j’emprunte à Paul Ricoeur : la tolérance, ce n’est pas accepter que l’autre s’habille ou vive différemment, c’est accepter que l’autre possède une part de vérité.

EG : Un aspect peux connu de cette guerre continuelle est la guerre pour obtenir la proprieté des brevets…

AL : C’est exact mais c’est un petit aspect de cette guerre économique mondiale. En fait, comme je le montre dans mes livres et dans mes émissions sur France 24, hélas, plus aucun secteur de notre vie n’est épargné par cette compétition continuelle. Même nos âmes, même notre mort est objet de convoitise commerciale. Voyez un pays comme le Brésil, où les églises (catholique, pentecôtiste…) se mènent une terrible compétition pour attirer le plus d’ouailles possible. Car ces églises sont devenues de véritables entreprises. Les plus grandes accueillent des milliers de croyants dans leur « mega-church » et possèdent des filiales dans la communication, le BTP… D’où les scandales sur le financement des campagnes politiques et la corruption entre ces églises, le monde politique et le milieu des affaires. Pour autant, il est vrai que la propriété intellectuelle est un enjeu important dans cette guerre économique. Certains acteurs se battent pour « voler » les secrets technologiques de leurs concurrents. D’autres s’en emparent au nom des droits et du respect de la vie humaine comme dans le cas de médicaments qui peuvent sauver des vies de gens qui n’ont pas les moyens de se les procurer. Ce n’est pas un hasard si l’industrie du générique est forte en Inde. Ce pays n’a pas toujours respecté la propriété intellectuelle pour des questions sanitaires évidemment (et sans doute a-t-il eu raison de sauver des vies plutôt que suivre les règles trop étroites de la compétition économique mondiale). Toutefois, l’Inde en a également profité pour constituer une industrie du générique mondialement compétitive.

EG : Comme on peut juger l’escalade très accentuée du terrorisme islamique ?

AL : L’invasion américaine de l’Irak en 2003, pays qui n’accueillait aucun terroriste d’Al-Qaïda, ni aucune arme de destruction massive fut une immense erreur stratégique. Loin de diminuer la pression terroriste, elle l’a quintuplé en déstabilisant un pays qui n’était pas concerné par les émules de Ben Laden. Nous payons (crise des migrants…) et nous paierons encore très cher cette addition laissé par le mandat de G. W. Bush. On pensait que Ben Laden avait échoué dans sa stratégie de lever les masses arabo-musulmanes à la suite des attentats du 11 septembre 2001. En fait, sa stratégie fonctionne. Mais comme nous n’avons plus la notion du temps long (plus de 5 ans), nous sommes aveugles aux profondes tendances de l’Histoire qui se dessine. Daech est un enfant (même illégitime) de Ben Laden et consorts. Le groupe Etat islamique déstabilise directement à lui tout seul deux pays, l’Irak et la Syrie, et indirectement le Liban et demain, si la situation s’aggrave, la Jordanie et l’Egypte, voir les pétromonarchies du Golf. Bref, le rêve de Ben Laden peut hélas se réaliser. D’autant que depuis le 11 septembre 2001, l’auto-prophétie sur la guerre de civilisation est en train de pointer son nez. Du moins si on en croit ceux qui en Occident, la souhaitent.

EG : Un terrorisme qui repond à des causes endogènes ou allogénes ?

AL : A l’heure de la mondialisation, tout est lié. Il n’y a plus de frontières hermétiques entre des causes nationales et internationales, endogènes et allogènes. Le malheur du monde arabe, c’est son impuissance à porter sa parole dans le concert des nations. Voyez l’incroyable évolution du monde à partir de la chute du Mur de Berlin en novembre 1989. Toutes les régions du monde en ont tiré un bénéfice, qu’il soit économique et/ou politique. Même l’Afrique qui pourtant souffre de milles maux, même l’Afrique abrite des pays qui peuvent porter leur voix dans la compétition économique mondiale. De plus, en Afrique, il existe des pays démocratiques qui acceptent de laisser la parole aux urnes. Dans le monde arabe, il n’y a ni démocratie, ni développement économique au service des peuples. Les pétromonarchies sont riches mais que font-elles de leurs dollars ? Elles les investissent dans les clubs de football comme le Qatar qui construit gaspille son argent pour construire des stades afin d’accueillir la coupe du monde. Elles achètent aussi des hôtels de luxe en Europe…Quel est le retour sur investissement ? Il est quasiment nul. On appelle cela du capital mort. Jamais les peuples arabes n’en profitent pour assurer leur développement et leur bien être. Pourquoi, cette région qui est la plus militarisée du monde, qui achète des armes pour des milliards de dollars, n’a-t-elle créé aucune multinationale (excepté Al Jazeera) digne de concurrencer les multinationales américaines, européennes, sud-américaines, asiatiques… ? Pourquoi, les dirigeants arabes qui passent des milliards de dollars de commandes à des entreprises occidentales ou asiatiques n’exigent pas du transfert de technologie et des lignes de montage en Egypte, en Syrie, au Liban... ? Le monde arabe n’a aucune stratégie d’intelligence économique. Pourtant, celle-ci pourrait être mise au service du développement et donc de la stabilité de cette région.

EG : L’image de l’Europe n’est pas vraiment des plus positives. Notre continent semble vivre une crisi épocale et identitaire…

AL : La crise de l’Europe est avant tout économique. Donnez du travail aux chômeurs et vous verrez qu’une partie du malaise disparaitra. Une partie seulement car il est vrai que l’Europe manque de projet. Avoir réussi l’immense pari de la paix après la seconde guerre mondiale est déjà un grand succès pour l’Europe. Il nous faut rendre hommage à ces Européens qui ont apaisé ce continent autrefois si turbulent. Quid pour aujourd’hui ? Il faut un vrai projet pour mobiliser l’ensemble des Européens. Lequel ? Je n’ai pas la solution. Je suis toutefois sûr d’une chose : le vieux continent ne peut pas accepter le statut de vassal des Etats-Unis. Il lui faut trouver sa propre voix, celle d’une puissance tranquille.

EG : On peut s’apercevoir de cette crise par le manque d’attractivité culturelle que souffre notre continent.

AL : Je ne suis pas sûr que ce continent manque d’attractivité culturelle, cela dépend des secteurs de la culture. Il est vrai toutefois que la crise intellectuelle est très forte. Autrefois, phare de la pensée critique, l’Europe apparaît aujourd’hui à la traîne des Etats-Unis qui savent attirer les grands penseurs (même ceux qui ne sont pas anglophones). Les penseurs critiques américains ont le vent en poupe car ilsproduisent une pensée, critique à partir des luttes politiques et sociales. Aux Etats-Unis, mais aussi au Brésil et en Inde, les intellectuels réfléchissent en se connectant aux mouvements sociaux. Ce n’est plus le cas en Europe où la pensée est déconnectée d’une certaine réalité, où la pensée est au service d’elle-même, c’est-à-dire du vide. Il est temps que nos intellectuels descendent de leur tribune médiatique ou universitaire pour aller voir sur le terrain ce qui se passe réellement. Il y a un grand risque à ne plus participer au débat des idées mondiales, celui de ne plus influencer le futur. Or, l’Europe modèle une partie de l’avenir du monde depuis cinq siècles. Peut-être n’est-ce pas si grave après tout que d’autres pensées issues d’autres continents, prennent en charge notre usage du monde. On ne peut pas se vanter d’avoir mis le monde sur de bons rails…Faut-il une Europe encore plus unie ? C’est évident tant on sent que le manque d’union de l’Union européenne fait souvent caler le moteur européen. Mais comment créer du consensus quand on ne connaît pas le projet qui réuni tant de différences ? Comment préserver la diversité dans l’union quand on ne sait pas où l’on va ? Comment aussi créer une solidarité européenne quand les dirigeants réfléchissent encore trop souvent en termes de nations ? Notre monde bouge vite, très vite, les responsables politiques en perdent leurs repères et n’ont pas le temps d’en créer d’autres afin de modifier leur vision. C’est par le bas que l’adaptation est la plus rapide et l’aiguillon (faut-il s’en réjouir ?), c’est le marché. Dans ce cas, ce n’est pas le citoyen qui décide. Celui qu’il faut satisfaire, c’est le consommateur. On peut imaginer où cela peut nous entrainer !!!


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