Follia/Follie

Basaglia trent’anni dopo

di Alberto Giovanni Biuso - giovedì 3 aprile 2008 - 3858 letture

Trent’anni fa il Parlamento italiano approvava la Legge 180, che ha preso nome dal più tenace tra coloro che la vollero: Franco Basaglia. Lo psichiatra sarebbe scomparso pochi anni dopo ma il suo contributo è rimasto tra i più significativi fra quelli che cercano di capire la follia. Perché Basaglia, contrariamente a ciò che spesso si ritiene, non nega affatto che la follia esista ma anzi che «l’istituto manicomiale nasconde, impedisce di vedere la malattia mentale e, quindi, senza sopprimerlo non ci si può rendere conto di cosa essa è, poiché è totalmente deformata e trasformata dall’istituzione» (Mente & Cervello - 40, aprile 2008, p. 56).

Basaglia rifiutava ogni spiegazione monocausale della malattia mentale, compresa la semplicistica relazione causa-effetto tra fattori sociali e disturbi psichici, sostenendo che la follia «è un’interazione di tutti i livelli di cui siamo composti, biologico, sociale, psicologico, e di questa interazione fanno parte un’enorme quantità di variabili» (Ivi, 69).

La scoperta di psicofarmaci in grado di restituire almeno in parte libertà e autonomia ai pazienti, indusse Basaglia a intraprendere la sua lotta per l’abolizione dei manicomi, luoghi apparentemente di cura ma in realtà di detenzione umiliante e feroce. Psicofarmaci che contribuirono a far «distinguere i danni provocati dalla malattia da quelli dovuti all’istituzionalizzazione» (Ivi, 64). Il rifiuto degli psicofarmaci –non del loro abuso, ovviamente- a favore di lunghe, costose e vaghissime terapie psicologiche è un’altra conseguenza del rifiuto della corporeità organica, della struttura chimica che sta a fondamento del pensare, emozionarsi, amare, soffrire.

Il periodo che Basaglia trascorse negli Stati Uniti lo convinse anche del pericolo di una estensione acritica e indiscriminata del concetto di devianza, funzionale a «un controllo sociale sempre più capillare» (Ivi, 67). Anche così si spiega la proposta di affidare il malato di mente a strutture molteplici e diffuse sul territorio. Che questa soluzione si sia rivelata troppo spesso fallimentare, non è dovuto alle tesi di Basaglia ma alla scarsezza di risorse investite nella cura effettiva dei malati. Oggi in Italia alcune zone hanno realizzato in pieno le indicazioni della 180 (Trieste, ad esempio), altre invece scaricano sulle famiglie il peso –enorme- della malattia. Ma ciò che l’impegno di Basaglia ha regalato a tutti noi –malati di mente conclamati o no- è il principio fondamentale «che qualsiasi paziente (e quindi non solo quello psichiatrico) ha il diritto di decidere come e quando farsi curare» (Ivi, 55), sottraendo i nostri corpi al controllo autoritario della corporazione medica, che fa enormi danni (ed è complice di interessi inconfessabili) anche sulla drammatica vicenda delle donazioni di organi a cuore battente, tolti cioè a persone ancora vive, perché l’organo espiantato a un cadavere è –semplicemente- inutilizzabile. La follia umana ha tanti modi di manifestarsi e quella dei malati di mente non sempre è la più pericolosa.

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4 aprile 2008

Su Basaglia e il tempo che passa suggerirei la lettura dell’ultimo numero di Diogene Filosofare oggi (edizioni Giunti).
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