Dopo la caduta, di Ida Dominijanni

La valenza generale, culturale e politica, del referendum non e’ passata nell’opinione pubblica, che evidentemente l’ha vissuto come una marginale consultazione su una questione di pochi e per pochi...

di Redazione - sabato 18 giugno 2005 - 9899 letture

[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 giugno 2005. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all’Universita’ di Roma Tre, e’ una prestigiosa intellettuale femminista]

Quindici anni e piu’ di spoliticizzazione della societa’ italiana precipitano in quella cristallina cifra del 25,9% di cittadini e cittadine italiani che hanno ritenuto utile esprimersi sulla legge sulla procreazione assistita. Cifra cristallina, e sconfitta cristallina per chi, noi compresi, aveva creduto nel referendum non solo per correggere una pessima legge, ma anche per imporre all’attenzione pubblica un tema importante e i suoi importanti risvolti politici.

Tecnicamente, sarebbe stato meglio attendere che la legge venisse bocciata - come prima o poi accadra’ - da una pronuncia della Corte. Tatticamente, sarebbe stato meglio affidarsi al solo quesito abrogativo complessivo, quello proposto dai radicali e bocciato dalla Consulta, piu’ chiaro e piu’ comunicabile dei quattro quesiti parziali, troppo oscuri e troppo tecnici. Ma ormai non e’ questo il punto. E non e’ nemmeno l’usura dello strumento referendario, che pure c’e’ e pure domanda una riforma, ma non puo’ diventare un alibi - l’ennesimo alibi da ingegneria istituzionale - per non leggere piu’ spietatamente il risultato.

Il punto e’ che la valenza generale, culturale e politica, del referendum non e’ passata nell’opinione pubblica, che evidentemente l’ha vissuto come una marginale consultazione su una questione di pochi e per pochi (fatti loro), o peggio, come un sibillino regolamento di conti interno alle due coalizioni che si contendono il governo del paese. Il che vuol dire pero’ che il fronte referendario non e’ riuscito a comunicare nemmeno al suo elettorato di riferimento l’importanza dirimente delle poste in gioco che la materia della procreazione assistita trascinava con se’: liberta’ personali, laicita’ dello Stato, qualita’ della legiferazione, statuto della maternita’, della paternita’ e della famiglia, rapporto fra politica, scienza e diritto nel governo della vita. S’era gia’ visto del resto negli otto anni di iter della legge: a sinistra mancava un discorso all’altezza della sfida bioetica, non subalterno al moralismo cattolico e non ossessionato dalla contrapposizione o dalla mediazione con le gerarchie vaticane.

E’ in questo vuoto che i fondamentalismi attecchiscono, non solo in Italia; e’ in questo vuoto che le "guerre culturali" prosperano, seminando certezze sull’Embrione, la Vita, Frankenstein, e gettando nel discredito l’intera tradizione critica della modernita’. Non e’ l’antico conflitto fra laici e cattolici, Repubblica e Vaticano, Peppone e Don Camillo. E’ una nuova mappa delle appartenenze in cui il tradizionalismo cattolico si salda con la rivoluzione conservatrice dei teo-con: una miscela aggressiva che consente alla Cei di cantare vittoria contro "l’assioma modernizzazione-secolarizzazione", spalleggiata dai nuovi intellettuali atei che recitano cinicamente il Verbo di Dio.

L’America che ha premiato Bush e’ arrivata in Italia? Si direbbe di si’, ma con molta convinzione in meno e molta indifferenza in piu’: la’ si contavano voti con le percentuali di partecipazione in salita, qui contiamo astensioni con i quorum in discesa. Il nuovo fondamentalismo germoglia nel deserto dell’apatia e del disincanto. Malgrado la convinzione spesa nella campagna referendaria dalle principali testate nazionali della carta stampata, segno inequivocabile di una rottura allarmante nel circuito di formazione dell’opinione pubblica, forse ormai irreversibilmente prigioniera dell’audience televisiva. E segno altresi’ di una crisi di rappresentazione, prima che di rappresentanza, della societa’, diventata imperscrutabile nei suoi umori e nelle sue oscillazioni. Quand’e’ cosi’, e’ da un paziente lavoro culturale che la politica deve ripartire: preoccupandosi di incollare le parole all’esperienza, prima che i leader alle sigle di partito e di coalizione.


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