Del mondo come presenza

Nel pensiero moderno dominante il valore ed il significato della terra/territorio sono andati progressivamente eclissandosi. Questa eclissi è l’esito di un lungo e tribolato processo di allontanamento degli umani dal mondo come presenza, dall’anima mundi.

di Maria Cunsolo

Introduzione

L’anima del mondo è dotata di sensazioni. Il mondo è un grande vivente nel quale tutto simpatizza ed è sottoposto a regole e corrispondenze.

Plotino, Enneadi

Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro un significato. Che vien da dire come il primo fondamento della poesia sia l’oscura coscienza del valore dei rapporti, quelli biologici magari, che già vivono una larvale vita d’immagine nella coscienza prepoetica.

C. Pavese, Il mestiere di vivere, Il saggiatore pag 15

Nel pensiero moderno dominante il valore ed il significato della terra/territorio sono andati progressivamente eclissandosi. Questa eclissi è l’esito di un lungo e tribolato processo di allontanamento degli umani dal mondo come presenza, dall’anima mundi. Allontanamento, separazione che già "nell’orgoglioso compiacimento dei Greci per la ragione umana" aveva raggiunto la sua più aperta espressione. L’invito Aristotelico ad abbandonare, data la divinità dell’intelletto umano, le antiche norme di vita, che consigliavano umiltà e pensieri da mortali, costituisce un eloquente approdo nel lungo percorso che porta alla disgiunzione dalla Natura. La tracotanza e il superamento di ogni limite, in una parola l’hybris, l’ambiziosa passione che ancora gli umani d’epoca omerica temevano, si trasforma da vizio in virtù; diviene la substantia della nuova modalità del pensiero. Prometeo è finalmente libero. L’occidente si è costruito attorno al paradigma della lotta contro la natura. Eppure le persistenze animiste nell’occidente ormai dominato dal pensiero logico razionale, rimangono per lungo tempo più che evidenti. Solo in epoca moderna e con l’affermarsi del pensiero tecno-scientifico, questo processo trova pieno compimento. Occorreva il postulato dell’oggettività della Natura, la "pietra angolare del metodo scientifico" per negare l’anima alla terra, la natura relazionale ai territori e il dono dell’incanto agli umani. Cessato, quindi, l’ascolto del dato "naturale", limiti e concordanze vanno eclissandosi; si interrompono le corrispondenze e, superato il cosiddetto primitivismo, eccoci tutti catapultati nel nichilismo della defisicizzazione, dell’utilitarismo, dello sfruttamento smisurato. Ora gli umani, liberati dall’inarrestabile lotta per la supremazia sulla natura, possono finalmente sottrarsi al profondo intreccio che li legava ai ritmi delle stagioni, alle mutazioni climatiche, al corso delle acque, alla cultura del territorio. Tutte cose da sperimentare, tutt’al più, nei reality show o da consumare nei diversi documentari che narrano gli albori delle vicende dello sviluppo e del progresso. La tradizione antropocentrica e tecno-funzionalista ha ridotto, così, la terra a supporto anodino e il territorio alla "parte di superficie terrestre" su cui ha giurisdizione una collettività istituzionalizzata, un "...ambito spaziale entro cui l’ente può esercitare il suo potere" . Il territorio come "ambito spaziale", come "estensione di terreno" è divenuto il supporto sul quale la trama umana si snoda poliforme. Un ’supporto’ disanimato sul quale avviene qualcosa, non un ’rapporto’ insieme al quale qualcosa diviene. Liberati dallo spazio arcaico, dalla territorialità, gli umani possono offrirsi agli scambi accelerati nella qualità di merci. Progressivamente vinta ed addomesticata, tolta da dentro di noi, allontanata e sezionata sul tavolo dell’anatomia scientifica, la natura perde ogni soggettività, è spersonalizzata. L’umanità della scienza è, per dirla con La Cecla , un’umanità cui la Natura non fa più compagnia. In epoca moderna solo i poeti, talvolta, hanno saputo ricordare quest’essenza nascosta. Solo i "poeti", nella loro visionaria creatività, hanno saputo, tracciandone il verso, rispondere alla domanda silenziosa dei territori; hanno rigurgitato la memoria dei luoghi divenendo essi stessi luoghi di memoria. In essi, nel loro fare, il "tratto di terra" si è rianimato per divenire anche il ritratto di essa, quel trarne l’immagine perché continui ad operare una certa comunicazione. E’ reminiscente il fare della poiesis. Certo, "l’aedo è un indovino del passato" (Le Goff), l’ultimo resistente, direbbe Adorno, creatore di un tempo/spazio originario, quindi, di originali tradizioni. Eppure se i poeti rimangono i soli testimoni della terra e dei suoi territori vuol dire che la tragedia si è consumata. Che l’espropriazione è reale, che la disgiunzione nella phisis è al colmo, che si è fatta incolmabile la distanza tra gli esseri ed i luoghi in cui e tramite cui si danno. L’esaurimento delle capacità poietiche dei territori è l’esaurimento in senso pieno. Da questo pieno, da questo drammatico colmo, che disorienta gli stessi umani quanto il mondo in cui vivono, sembrano tracimare istanze tanto antiche quanto piene di una nuova imago mundi. "Il tramonto è già accaduto ", scriveva Heidegger e solo dopo questo tramonto si potrà parlare di cominciamento. L’affacciarsi in occidente di un nuovo ethos sulla scena sinora dominata dal pensiero tecnico è sotto gli occhi di tutti. Un ethos, ancora oggi in formazione, ma che in lungo e largo attraversa confini, saperi, culture, sempre più divenendo l’oriente di vasti movimenti sociali. Abitare, ascoltare, appartenere, etica, limite, misura, partecipazione, comunità, autorganizzazione, sono alcune delle parole di questo nuovo ethos, ancora frammiste ai resti di alcune delle grandi narrazioni ed interpretazioni ottocentesche, ma già capaci di prefigurare i moti ed i modi di un nuovo mondo possibile. Le parole di questo ethos non sono, quindi, sconosciute, né lo sono i modi d’esistenza. Da un certo punto di vista si potrebbe parlare di ritorno. È come se il pensiero occidentale stesse tornando al punto da cui è partito, da cui s’è allontanato per intraprendere il suo destino. Ma un ritorno a cosa? A prima della decisione, al momento in cui la presenza non è ancora impegnata nell’opera di decidere di sé e del mondo. Al momento in cui il mondo è vissuto come presenza, è agito dialogicamente. Di questo momento non v’è un preciso riscontro storico, ma i lasciti nel pensiero antico sono più che evidenti. Tuttavia è questa profonda tensione che agita al fondo i gesti e le parole dell’eterogeneo movimento sociale chiamato dai media no-global. È la percezione che l’altro mondo possibile sia quello inclusivo di Gaia, secondo l’ipotesi di James E. Lovelok, quello della terra matria, secondo la lettura geofilosofica ed ecosofica, o ancora quello di chi abita nella misuratezza. L’immagine in costruzione di un nuovo mondo è l’immagine dei nuovi modi di abitare in consonanza, quel prendersi cura dell’essere di cui Heidegger ha fatto lezione.