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La Comunità Internazionale in Costa d’Avorio

Al di fuori dei capri espiatori occidentali, i milioni di cittadini del Sahel che vivono al sud sono in uno scenario - catastrofe, bersagli tutti pronti.

di Thierry Avi - mercoledì 3 maggio 2006 - 2728 letture

Molto più dell’operazione Licorne (la forza militare francese di pace in Costa d’Avorio), tutta la faccenda franco-onusiana sembra essere fonte di problemi, come dimostrano bene i recenti eventi di Abidjan ed i morti di Guiglo. Inedita sul piano del diritto internazionale, la situazione richiama tuttavia dei paralleli storici interessanti, anche regionali. Inoltre, le dichiarazioni non corrispondono sempre ai fatti.

Partito per “fare la pace", l’intervento della Francia e della Comunità internazionale ha certamente in un primo momento limitato la violenza, anche se non ha ricacciato la ribellione verso le sue basi del Burkina Faso, come invece prevedevano gli accordi di difesa siglati nel 1960 tra lo Stato ivoriano e quello francese. Ma, oggi, allo stesso tempo amplificato ed impantanato, lo stesso intervento si è trasformato in una gestione autoritaria che non lascia prevedere nulla di buono e che rischia al contrario di condurre ad una violenza crescente, questa volta d’origine esogena.

Per gli storici, il processo di risoluzione della crisi ne ricorda altri! Si tratta di una "messa sotto tutela" strisciante, o di un "territorio sotto mandato"? Se anche questi termini non vengono usati, le realtà vi somigliano e non sono affatto incoraggianti, similmente al Kosovo, ad esempio.

Per i giuristi internazionali, le Nazioni Unite hanno creato un mostro, particolarmente nelle contraddizioni non risolte tra uno "stato sovrano" conservando tutta la sua validità alla Costituzione ivoriana (con "il primato della risoluzione 1633 del Consiglio di sicurezza " che prevede l’estensione del mandato del Presidente ivoriano per un anno), e la sua espropriazione pratica attorno ad un Primo Ministro arrivato nei furgoni dei poteri decisionali internazionali.

Ma soprattutto, le istituzioni internazionali, inventando un organo che non si osa dire "ad hoc", l’ormai famoso GTI o groupe de travail international (gruppo di lavoro internazionale) sono riusciti, prima impresa, a dare fuoco alle polveri. Questa commissione formata da tutti i poteri interventisti onusiani, africani e francesi dovrebbe riunirsi periodicamente ad Abidjan, come un anacronistico "consiglio di governatori" per soprintendere e molto presto per sostituire l’apparato statale ivoriano, che, ovviamente, oppone resistenza. Per gli africanisti favorevoli alla risoluzione autorevole dei conflitti, un governo marionetta in Sierra Leone, un altro sotto tutela in Liberia causerebbero lo stesso processo in Costa d’Avorio, con l’ausilio della costosa ed interminabile presenza di 10-15.000 soldati per paese, rafforzati da una armata di ONG che prosperano ai margini dell’ONU.

Tutto ciò in una grande riflessione politica ed in inquietanti improvvisazioni, perché, oltre a demonizzare un regime ed un Presidente vittime di un colpo di stato teleguidato, nel settembre 2002, dove è la soluzione a lungo termine? Numerosi soldati francesi hanno soltanto un desiderio: lasciare il ginepraio ivoriano. Ancora, occorre - secondo loro, farlo "con onore", e non in condizioni drammatiche e sotto la spada di Damocle di ulteriori accuse come in Ruanda. I massacri reciproci del Novembre 2004, a Bouaké come a Abidjan sono stati traumatizzanti per i due schieramenti e non possono essere politicamente ripresi e questo ha recentemente favorito un trasferimento inedito della violenza sulle forze dell’ONU già in parte superate dall’andamento della situazione.

La soluzione del tipo Renforcement des capacités africaines de maintien de la paix (rafforzamento delle capacità africane di mantenimento della pace) sembra fallire, come la “vietnamizzazione” di triste ricordo. Non si dirà mai abbastanza: violenze più grandi sono sempre possibili, in una politica del peggiore che si vorrebbe credere non proiettabile. Al di fuori dei capri espiatori occidentali, i milioni di cittadini del Sahel che vivono al sud sono, ahimè, in uno scenario - catastrofe, bersagli tutti pronti. Le soluzioni politiche proposte hanno l’inconveniente principale di trovarsi in porte-à faux (in falso) con l’opinione nazionalistica sudista, violentemente antiribelle ed attaccata ai simboli dello Stato ivoriano: armata, presidenza, assemblea etc.

Ogni tentativo di riconferma della conferenza di Kléber, ogni soluzione militare o personale (sanzioni ad hominem o “soluzione alla Haitiana” di destituzione del Presidente), non farà che surriscaldare gli spiriti o fare esplodere la capitale. Se non c’è una scienza esatta delle violences extrèmes (violenze estreme) né una termodinamica delle pressioni, siamo pronti a scommettere che un aggravarsi della violenza simbolica verticale, derivata dal "sistema di gestione mondiale", potrebbe tradursi con la moltiplicazione di violenze orizzontali, tra gruppi ed etnie, rendendo la Costa d’Avorio definitivamente ingovernabile.


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