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Cappuccetto rosso s’è pappato il lupo

Settanta acrilico trenta lana, di Viola Di Grado (E/o, 2011)

di Sergej - mercoledì 22 agosto 2012 - 4292 letture

t_digrado Viola Di Grado è nata a Catania nel 1988. Si è laureata in lingue orientali a Torino e ha studiato a Londra. Sua padre è Antonio Di Grado, insegna all’Università di Catania, è stato assessore alla cultura nella giunta Bianco (quella della "rinascita" di Catania): autore di teatro, una figura limpida. Sua madre Elvira Seminara è giornalista impegnata, autore di romanzi. A 23 anni Viola ha esordito con un romanzo che è stato letto, su cui una casa editrice piccola ma importante come E/o ha scommesso, ha vinto il premio Campiello Opera Prima. Insomma, Viola Di Grado ha tutte le caratteristiche per far morire d’invidia tutti quelli che non sono figli di professori universitari o di giornalisti, che non si possono permettere di andare a Lingue Orientali e farsi pubblicare da E/o. Viola Di Grado ha tutte le caratteristiche per farsi odiare. Si dà un sacco di arie, Viola Di Grado, si atteggia. Se la tira sù, come si dice. Si veste strana (imbruttendosi), scimmiotta il dark e il gothic.

copertina_803 Anche il suo libro scimmiotta il dark e il gothic. Una specie di Amélie Nothomb all’italiana - la "risposta" alla scoperta dell’autrice belga di Voland (la piccola casa editrice italiana Voland è stata quella che ha scoperto per l’Italia Nothomb quando qui nessuno sapeva chi era) da parte del mainstream editoriale italico. Visto che c’è il pubblico, vediamo di trovare altri autori con cui tirare un po’ di euro anche da queste parti... Iniziando a leggere il libro notiamo le ripetizioni, certe forzature e certa "voglia di stupire e di atteggiarsi a dark a tutti i costi". Pensiamo al pubblico di lettori medio basso che sicuramente non riuscirà ad andare oltre le prime pagine perché il linguaggio non è quello piatto, televisivo della narrativa di successo. E iniziamo a ridacchiare con Camelia, la protagonista del libro di Viola Di Grado: l’umorismo e l’auto-ironia, lo sforzo di trovare una scrittura non banale e non trita. Un fumettone noir, una graphic novel, in cui si intrecciano alcuni temi non secondari: il rapporto con la madre (c’è sempre un conflitto con la madre in un libro scritto da una donna? non necessariamente, ma qui c’è - né questo significa che sia autobiografismo), con l’amore (poteva essere altrimenti? "impossibile..."), con la città in cui ci si trova (adolescenzialmente, "contro"). Quella di Viola Di Grado è una scrittura densa, che salva il romanzo e la sua trama - anche le piccole pecche, le piccole cadute di contenuto soprattutto connesse all’auto-compiaciuto dark descrittivo -. Avrebbe potuto, Viola Di Grado, stendere almeno tre romanzi dilavando un po’ questo esordio e tagliando qualche "nodo" che rimane inesploso. Di Grado scrive in traslato, la sua è la favola di cappuccetto rosso, che non finisce con il lupo che si mangia la bambina ma in maniera dark, con la bambina che uccide il cacciatore (il nuovo boyfriend della madre) e imprigiona la nonnina (=la madre) nell’incubo senza fine dell’inferno su questa terra. A me il romanzo di Di Grado è piaciuto, promette bene per le prossime prove.


Risvolto di copertina:

Camelia vive con la madre a Leeds, una città in cui "l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima", in una casa assediata dalla multa. Traduce manuali di istruzioni per lavatrici, mentre la madre fotografa ossessivamente buchi di ogni tipo. Entrambe segnate da un trauma, comunicano con un alfabeto fatto di sguardi. Un giorno però Camelia incontra Wen, un ragazzo cinese che comincia a insegnarle la sua lingua: gli ideogrammi. Assegnando nuovi significati alle cose, apriranno un varco di bellezza e mistero nella vita buia di Camelia. Ma Wen nasconde un segreto, assieme a uno strano fratello che dietro una porta deturpa vestiti...


Una recensione:

Le lacerazioni della Di Grado, di Giulio Ferroni

da: Il Manifesto, 27 marzo 2011

La scorsa settimana su queste pagine Daniele Giglioli ha notato come nella narrativa più recente si dia una sorta di crollo della «scrittura», nel quadro dell’emergere di una condizione postmediale, caratterizzata dall’indifferenza per il rilievo del medium utilizzato. Se questo accade per molti esordienti (e, ahimé, anche per molti narratori in testa alle classifiche), non è proprio il caso della ventitreenne Viola Di Grado, che con Settanta acrilico trenta lana (e/o, pp. 191, € 16,00) ci dà una formidabile prova di scrittura: entro la rappresentazione di un mondo cupo e lacerato, tra malessere, degradazione, desiderio, rabbia verso il mondo che rovinosamente precipita. Il racconto è in bocca a una ragazza stralunata e un po’ dark, chiusa dentro un proprio universo assurdamente circoscritto, dove si muove con una sorta di maniacale metodicità, come se ne avesse a priori misurato i limiti, sottoscrivendone le condizioni e impegnandosi eroicamente a non uscirne, pur tra prove di fuga, aspirazioni sempre rientrate a una improbabile felicità. Il mondo chiuso è quello di una città inglese che nei suoi tratti di squallore si presenta come un emblema della attuale condizione postindustriale (non nel senso di quell’uscita dal mondo industriale di cui blaterano i tardi apologeti del postmoderno, ma in quello del suo moltiplicarsi e sfaldarsi, del suo produrre scarti e residui, con invasione di stracciati simulacri). E non si tratta di una generica «città inglese», ma di una città vera e propria, Leeds, con i suoi luoghi senza qualità, negozi, parchi, caseggiati, strade, tutto precisamente identificato, come quella Christopher Road in cui all’inizio la protagonista-narratrice, l’italiana Camelia che vive lì da alcuni anni con la madre, dopo la morte del padre, che era venuto lì a fare il cronista, getta in un cassonetto una «nuovissima giacca fucsia». Ed è paradossale cominciare da lì, perché, come ci dice Camelia, «a Christopher Road non succede mai niente. Semmai finisce. Finisce tutto, anche le cose che non sono mai cominciate…». Per lungo tratto del romanzo questa Leeds appare bloccata in un perpetuo inverno, che Camelia registra con continui turbamenti della cronologia, che toccano sia la successione delle ore che quella dei giorni, con un calendario che sembra incepparsi nel passaggio tra il 2004 e il 2005: quando poi si affaccerà la primavera, sembrerà darsi come un sogno illusorio, che accende una speranza accettata contro voglia, che non può che negarsi e dissolversi. Se Camelia ha quel nome di fiore, che per noi può evocare perfino la lontanissima dame aux camélias, il suo mondo è invece quello degli scarti del consumo, dove sono perpetuamente in agguato oggetti rovinati, lacerati, desueti già prima di essere usati: e insistente è la sua lotta con i vestiti, che molto presto la porta a indossare abiti impropri, tagliati in modo irregolare, con improprie aperture, con buchi emancanze di pezzi (di cui si scoprirà a un certo punto l’origine). Ma oltre che dagli oggetti, e più che dagli oggetti, Camelia è ossessionata dal linguaggio, e non soltanto per la sua condizione di italiana che si trova immersa nell’universo anglofono (dove, dopo aver rinunciato all’università, tenta anche di guadagnare qualcosa traducendo in inglese istruzioni per lavatrici di una ditta italiana). Ella pensa che «sono le parole che sono contrarie alla vita, ti nascono in testa, te le covi in gola, e poi in un attimo ci spargi sopra la voce e le uccidi per sempre. La lingua è un crematorio incosciente che vuole condividere e invece distrugge ». Cerca allora di bloccare le parole; e a questo del resto la spinge il comportamento della madre, che, caduta nella disperazione dopo la morte del marito (perito in un incidente mentre la tradiva con un’amante), ha come spento la propria voce di cantante lirica, smettendo completamente di parlare e giungendo a una degradazione estrema, oltre un mero stato vegetativo, comunicando con la figlia solo attraverso gli sguardi. Il linguaggio degli sguardi offre molteplici variazioni nel corso del romanzo: ma presto a esso si sovrappone il linguaggio degli ideogrammi cinesi, che Camelia apprende frequentando un ragazzo cinese, che gestisce un negozio di vestiti, Wen, di cui si innamora (o crede di innamorarsi). Viola Di Grado (competente e studiosa di lingue orientali), nel seguire lo studio che con Wen Camelia viene a fare del cinese, offre un vario, estroso e deformante gioco con gli ideogrammi, con la loro evidenza visiva, come cercando nella materialità del linguaggio, nella sua sostanza oggettuale, non meramente fonetica, una sorta di farmaco o antidoto all’incontrollabilità del mondo, al perpetuo degradarsi delle cose e delle vite («Gli ideogrammi che io non significo nullama loro invece sono unità significanti, come diavolo si dice, morfosillabici»). Nella gestione quotidiana della casa dove vive, Camelia si trova a fare un uso incongruo non solo dei vestiti e del linguaggio, ma dei vari oggetti e utensili domestici; e si accanisce contro la natura che ostenta bellezza, cospirando contro la bruttezza, tanto viva nell’accumulo di oggetti artificiali, nella vita di tanti esseri umani. Di questa sua rabbia contro la bellezza sono vittime proprio i fiori, che ella strazia e violenta appena le capitano sotto tiro: «Se non fai attenzione camminando verso il centro ti ritrovi circondato da un’orgia di fiori gialli, e allora che puoi fare se non distruggerli, io li ammazzavo a uno a uno, li strozzavo con orgoglio necrofilo dentro la borsa». Così se la prende con una «petunia terminale» che ha sfiorato una sua gamba: «c’è un buco che ti aspetta, lì dentro ci pisciano i cani e ci scopano gli uomini, e poi muoiono tutti, uomini e cani, tutti insieme, anche se hanno cercato di chiudere il buco col cemento, e tu cosa credi, stupida, che la tua bellezza ti salverà?». Dai buchi, dalle fessure in cui le cose e le vite possono confluire, precipitare, perdersi, Camelia è ossessionata, come lo è la madre, che con una Polaroid fotografa buchi di ogni sorta, con inquietante sistematicità. In un filo continuo il romanzo lega le ossessioni molteplici che costituiscono il personaggio di Camelia, il mondo di cui ella è prigioniera, le strade ingannevoli attraverso cui prova a uscirne: con un coerente sviluppo di figure che ritornano, con una disponibilità a far passare il linguaggio dal più disinvolto livello colloquiale (che segue anche i correnti modi «giovanili ») agli scatti più rabbiosi, alle più concentrate e penetranti fissazioni di figure, di gesti, di ambienti, fino a certe amare formule morali, quasi di sapore classico, in cui la solitudine della protagonista si proietta sullo sfondo dell’indifferente incoscienza collettiva (ad esempio: «Si chiama vita il gioco che fanno tutti gli esseri umani senza di me»; «Il rumore della tempesta, quello dei binari, quello degli esseri umani che parlano, come se non ci fosse abbastanza rumore, ecco cosa siamo, rumore che si aggiunge al rumore»). Con ostinata intensità la giovane autrice sa immergersi e immergerci in questo universo fatto di scarti, di falle, di residui, dove anche ciò che, come àncora di salvezza, sembra venire da lontano (qui soprattutto il gioco col linguaggio e il fascino della lingua cinese con i suoi ideogrammi) non garantisce redenzioni,ma resta preso nell’imperante e rumoroso artificio, nella neutra e ostile indifferenza di quel tessuto (tanto essenziale è qui la deformazione dei vestiti!), settanta acrilico trenta lana.


Il libro:

Settanta acrilico trenta lana / Viola Di Grado. - e/o editore, 2011. - 192 p., 16 euro. - (Dal mondo). - ISBN: 978-88-7641-947-8



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